Con il lento ritorno alla normalità, speriamo che la prossima stagione invernale segni anche la piena ripresa di quella migrazione temporanea di masse umane, chiamata turismo, che sappiamo così importante per l’economia trentina. In inverno, le valli di Fiemme e Fassa sono percorse da file e file di auto e corriere zeppe di turisti, coi tettucci armati di sci come tanti lancia-missili, e felicemente vengono accolti nei tanti hotel, garni, B&B e appartamenti in affitto.
Si fa di tutto per rendere più piacevole la permanenza: dal Centro Benessere (scusate, Wellness Center) pure negli alberghi a tre stelle, alle seggiovie coi sedili riscaldati ad allietare le fatiche del posteriore. Giusto o non giusto, questa è la realtà se si vuol competere con i mercati dell’Alto Adige e di tutto l’arco alpino.
Naturalmente c’è chi propone di mettere limiti alla quantità, e di lavorare con una clientela di “veri” amanti dello sci e della montagna, disposti a spendere qualcosa in più. Una “Svissera” dello sci. Canazei come St Moritz, o almeno battere Cortina. Gioiellerie e sfilate di moda a duemila metri d’altezza, come facevano una volta al Sestriere.
Mah. Secondo me, siamo gente troppo alla buona per quelle cose lì; e lo dico per fare un complimento. O c’è chi vorrebbe semplicemente avere meno turismo e uno sfruttamento più oculato del territorio (che vuol dire basta tirar giù strisce di bosco per fare piste, e abolire i bar in quota con la musica da discoteca che distrugge i timpani anche alle aquile).
In ogni caso, non invidio i sindaci e gli amministratori, eternamente con la maniche della giacca logore per tutto il tirare di qua, di là, da chi vuole ridare le valli ai valligiani, e da chi vuole dare loro più soldi (soprattutto a loro stessi) mungendo il turismo come la proverbiale vacca grassa.
Vivendo all’estero, non ho pretese di conoscenza e di competenze sulla realtà odierna, per cui non mi avvento a proporre soluzioni. Ma forse potrebbe essere utile ricordare un attimo come si sciava a fine secolo scorso. Mi riferisco agli anni Settanta, quando alla radio impazzavano Patti Pravo e Adriano Celentano, e il decennio iniziava con la storica vittoria 4-3 contro la Germania (salvo finire polverizzati dal Brasile di Pelè nella finale).
Da qui le ‘cuerte’ e i ‘balòti’, espressioni italicamente traducibili dal predazzano con ‘coperte’ e ‘sassi’.
Le seggiovie riscaldate, sì… Immaginatevi piuttosto un’armatura di alluminio tipo dondolo-da-terrazza con delle assicelle di legno al posto dei cuscini, sedetevici sopra e affrontate il vento che vi sputa in faccia il freddo e la neve mentre salite con la velocità di una lumaca in gita.
Quando le temperature erano tali da garantire l’ipotermia, alla partenza ti davano una coperta da metterti sule gambe, di quelle militari, ispide come porcospini e così indurite che più che avvolgerti facevano da tetto alle gambe. E che le temperature fossero polari lo si sapeva non dall’App dello Smartphone, ma perchè la barra che ci si abbassava da sopra, in pochi secondi andava a ghiacciarsi sull’armatura della seggiovia formando un tutt’uno. Tanto che all’arrivo scoprivi di dover dare una bella botta da sotto in su, per far staccar la barra, e noi bambini alle volte non ne avevamo la forza e ci salvava l’addetto che, dopo essersi ripreso le coperte, ci liberava da quella trappola di metallo congelato. Pensa te i progressi che ci sono stati.
Allora non c’erano “tutti i comfort”, e se qualcosa andava storto non ci si lamentava. Come quando gli skilift – quelli con la padella di plasticona da mettersi dietro al sedere, oggi quasi estinti – avevano la molla di ritorno troppo carica e se eri mingherlino finivano ogni tanto col sollevarti in aria come un pollo appeso a un uncino. Sì, sì, me lo ricordo, io, a San Pellegrino, con mio padre dietro, mica preoccupato, che gridava di non mollare e di tenere gli sci dritti, pronto per l’atterraggio. Oggi ‘ste cose finirebbero dritte in tribunale.
E poi i balòti, peste e rovina di lamine e solette dei nostri poveri sci. Che ci fosse più o meno neve di oggi non lo so. So solo che senza cannoni – i primissimi arrivavano allora e sembravano una puntata di Star Trek – era impossibile assicurare una buona copertura da novembre ad aprile.
In più, le strisce delle piste non erano passate al setaccio per rimuovere ogni minima protuberanza. Se il manto scendeva sotto I dieci centimetri, allora sì che ci si impegnava a sciare, facendo lo speciale per scansare i tanti sassi che affioravano come iceberg pronti, se non ad affondarti, a lasciarti uno sfregio sotto, che già lo sapevi quando sentivi il “gratòn” sotto gli scarponi. Ah, sì, e se poi cascavi, mica avevano inventato gli sci auto-frenanti. No, no, bisognava tenerli legati alla caviglia con un laccio, e così uno se li portava dietro capitombolando, e se ti andava male uno ti sbatteva addosso, magari pure in fronte, come una volta al sottoscritto.
Scrivo tutto questo non per fare la solita tiritera sui bei tempi antichi. Ma per arrivare a una considerazione: oggi, nel bene e nel male, tendiamo a marginalizzare il più possibile la fatica e il rischio. La cultura della prevenzione è un’ottima cultura ma se lasciamo che detti legge finisce che viaggiamo in un’eterna bambagia. E quando andiamo in vacanza ci aspettiamo che sia tutto bambagia, tutto facilmente accessibile, tutto prevedibile, come se fosse un programma di computer, o uno di quei giochi elettronici in cui dai da mangiare a un animaletto inesistente e puoi calcolargli la dieta fino all’ultimo grammo.
Mah. Chissà che un giorno non torni di moda quel vivere grezzotto in cui molti di noi sono cresciuti. Forse c’era più sale in quello che nella vita “tutti i comfort” di oggigiorno.
Guido Bonsaver