Abbiamo deciso di riproporre alcuni articoli del periodico l’Avisio. Si tratta di “pezzi” che ci raccontano come eravamo. Gli articoli sono antecedenti rispetto ai giornali digitali scaricabili gratuitamente dall’archivio contenuto ne L’AvisioBlog. Oggi vi proponiamo un’intervista al maestro Simone Chiocchetti, meglio noto come Simonin Maza, pubblicata nel 2002. Buona lettura.
«Se avete qualche altro argomento da trattare, fate pure, parlare di me non conviene». Che cosa ci si poteva aspettare come prima affermazione da una persona umile come Simone Chiocchetti, meglio conosciuto come il maestro Simonin Maza?
A Moena è notissimo. Lo conoscono tutti, ma per i più giovani, che forse non sanno, il maestro Simonin è quell’uomo di 87 anni che ogni pomeriggio si allontana da Even, dove vive, per raggiungere Someda, Ronchi e ritorno, di buon passo. Si mantiene in forma, forse è per tutto il latte che beve ogni giorno, quello intero. La sua cena consta spesso di una buona tazza di latte caldo, magari due, e dei biscotti di sua moglie Rita, ottima cuoca.
Nel ’35 il maestro Simonin iniziò ad insegnare in Val Venosta nella scuola dell’Opera Nazionale, non quella governativa.
Conosceva il tedesco?
«No, io a scuola avevo studiato francese, il tedesco non lo parlavo e poi non era permesso pronunciare nemmeno una parola in tedesco a quel tempo. Poi scoppiò la guerra. Ero sottotenente del 3° plotone della Cp. 547 del XIII settore di Copertura Venosta a Merano. Nel 1940 mi sono trasferito a Pian del Re, comune di Crissolo in Piemonte, poi sono stato a Saluzzo una quindicina di giorni, poi, in settembre partii per Zara. Mi destinarono a Borgo Erizzo, frazione di Zara, dove imparai una canzone croata che mi costò una punizione».
Era una canzone contro il regime?
«Macché, era una canzone d’amore. Ma mi punirono perché, e dissero, “tornava cantando canzoni croate”. Più tardi mi spostai nell’entroterra della Jugoslavia e sulle isole. Nel ’43, al tempo della ritirata, io mi trovavo in ospedale a Zara a curare un’infezione. Fu li che incontrai il dottor Kostner, ferito in combattimento. Dopo l’8 settembre, l’ospedale cominciò ad affollarsi di tedeschi feriti e dovetti andarmene per far posto a loro. Tornai a casa in licenza e non mi videro più. Ero un disertore dell’esercito tedesco, ma non me ne preoccupai più di tanto. C’era talmente tanta confusione che non sarebbero certo venuti a cercare me».
Chissà quanti ricordi di guerra potrebbe raccontare…
«Forse un giorno li scriverò e li aggiungerò a quelli già raccolti da mia sorella suor Canisia che racconta della nostra famiglia al tempo della Prima guerra mondiale. Sicuro, quella della guerra è una lunga storia».
Lei è il primo maestro di ladino della Val di Fassa?
«Sì. L’ordine di insegnare ladino arrivò nel ’69. Servivano due insegnanti, l’altro era il maestro Felice Defrancesco Gianot. Fu lui a vedersela brutta un mattino a scuola, quando fu bloccato sulla porta da una maestra italiana che non voleva permettergli di entrare. Allora era direttore il dottor Fanton, un idealista che non vedeva di buon occhio il ladino a scuola. Voleva che fossimo tutti uguali, tutti soltanto italiani».
Cosa avevate a disposizione per insegnare ladino?
«Assolutamente niente. Ci dissero di fare, ma non sapevamo da dove cominciare. Allora era presidente dell’Union di Ladins don Massimiliano Mazzel. Ci consigliò di non iniziare con l’insegnamento della lingua, ma di fare un passo alla volta, cominciando a fare cultura ladina, in italiano. Del tutto contrario era Guido lori che sosteneva l’idea che bisognasse invece fare soprattutto lingua. “O si fa o non si fa” soleva dire.
Ebbene iniziammo col ladino, ma dovevamo comunque parlare italiano. Avevo pensato di impartire lezioni di storia del popolo ladino traendo spunti da un libro di don Brunel di Soraga. Con Remo Locatin, divenuto presidente dopo don Mazzel, raccogliemmo un certo numero di letture per la bassa valle e Remo ci disegnò dei fiori per abbellirle. Ma non avevamo soldi per pubblicarle. Non mi sembrava un grosso problema, mi misi a fare delle copie. Ma non era mica come al giorno d’oggi che c’è la fotocopiatrice, allora bisognava scrivere con la carta carbone, due copie per volta.
Capii che non poteva funzionare e decisi di chiedere aiuto all’ispettore scolastico. Lui vedeva di buon occhio l’introduzione del ladino nella scuola. Mi disse di scegliere alcuni ‘centri di interesse’ e di cercare per ognuno piccole monografie, con interviste, visite a luoghi, osservazioni, fotografie e altro materiale simile. Io avevo messo assieme 8 o 10 pagine di note da sviluppare.
Intanto era giunta l’ora della pensione. Partecipai ad una riunione sulla scuola in Val Gardena e intervenni dicendo che in Val di Fassa avremmo avuto a disposizione un libro per le lezioni di ladino. Vollero vederlo, ma ovviamente io possedevo soltanto le mie note e non intendevo certo consegnare quel materiale così com’era. Qualcuno però glielo fece avere. Ancora oggi non so chi gliele passò, certo è che io feci una magra figura perché alla vista di quel misero materiale cominciarono a mormorare e screditarmi. Mi offesi moltissimo».
Che fine hanno fatto quelle note?
«Nella stufa. Pensai che non valeva la pena prendersela e poi ero già in pensione. Ho buttato tutto».
Dopo segue il capitolo Grop Ladin e il bollettino Nosha Jent. L’ha ideato lei?
«Come è noto, il Grop Ladin da Moena era una specie di filiale dell’Union di Ladins de Fascia. Il maestro Battista Volcan Techel fu il primo presidente della nostra associazione. Durante un incontro emerse la voglia di fare qualcosa di bello per Moena. Ma cosa? Il maestro Luigi Rovisi Stela propose di scrivere la storia del paese. In molti cominciarono a scrivere i ricordi di una volta. Nacque così la rivista Nosha Jent.
Più tardi quel bollettino divenne bollente, perché sollevò risentite polemiche. Ad alcuni piacevano gli scritti in moenese e ciò che veniva scritto, altri erano contrari. Prese il via comunque un bel movimento di opinione. Ora lo leggo sempre volentieri, anche se è privo di quello spirito combattivo e polemico tipico degli anni ’70. Al giorno d’oggi sembra che vada tutto bene, nessuno si infiamma, sembra che tutti abbiano altro a cui pensare e che non gli importi. È un bel libretto, ma non più così provocatore come una trentina d’anni fa.
Mi ricordo che un anno ci vennero a mancare i fondi. Fu il maestro Sandro Degiampietro a chiedere soldi in Provincia sulla cultura ladina. Ottenemmo 500 mila lire. Era una cifra considerevole, perché fu sufficiente per stampare cento copie del dizionario ladin-moenat-italiano del Dellantonio».
Che cosa pensa della standardizzazione del ladino fassano e di quello dolomitico?
«A me la variante cazet dell’alta valle piace, sono contento che sia stata scelta come lingua scritta per tutta la Val di Fassa. Lo trovo l’idioma con meno interferenze dall’italiano e quello più vicino al ladino delle altre valli. Però è giusto conservare nell’oralità l’idioma di casa propria. Anche il ladino dolomitico mi piace, ma sono sicuro che non verrà parlato da nessuno. Però è bello avere una lingua scritta che rappresenti tutti i ladini delle Dolomiti».
Adesso che è in pensione da un bel po’ di anni, cosa fa?
«Niente. Vado a spasso, fino ai Ronchi d’inverno perché è più soleggiato, e su oltre la Malga Panna in questa stagione. Cammino due ore al giorno».
La moglie Rita accenna di sì con la testa dalla cucina. Anche lei lo accompagna volentieri. Bisogna finire in fretta questa intervista, perché la cena è quasi pronta. «Oh, soltanto patate e caffelatte», si schermisce. Però non si smentisce. Ha fama di brava cuoca e col caffè ci ha portato dei dolcetti che sono la fine del mondo. Le è sfuggita anche la ricetta.
«Leggo di tutto – continua il maestro Simone -, anche qualche articolo in tedesco da Spiegel e qualche romanzo facile, ma sempre con il vocabolario a portata di mano. Mi interessa la musica classica, quella moderna non riesco a gustarla e a capirla. Mi piace leggere tutto, grazie ai libri ho conosciuto il nostro padre Emilio Chiocchetti, gran filosofo della corrente neoscolastica e grande mediatore… Ma dovete per forza scrivere di me, non potete lasciar perdere?»
Maura Chiocchetti
Un commento su “Un tuffo nel passato – E il ladino arrivò a scuola”
è stata una delle persone che mi ha fatto innamorare della mia lingua.
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