Fiemme e Fassa ne 22° secolo: odissea nel futuro

di Guido Bonsaver

Per una volta, proviamo a proiettarci nel futuro, a immaginare come saranno le nostre valli quando non ci saremo più. All’inizio del prossimo secolo, i nati nel 2023 saranno pensionati 77enni per cui, chiunque sta leggendo queste righe il mondo per allora lo vedrà – a seconda della fede religiosa – o dall’alto di una nuvoletta o dalla sauna di un reparto infernale, o attraverso gli occhi di un gatto o di un orso in cui sono transmigrati. Per gli atei e gli agnostici, dispiace dirlo, la prospettiva è buia.

Ma proviamo a pensarci. Proviamo a immaginare, tutti gli abitanti di Fiemme e Fassa, oggi, proprio oggi. Ognuno che si muove, indaffarato, entra ed esce da case, uffici, siede a tavola, fa un pisolino, legge, fa la spesa, telefona, fissa un bullone, fissa lo schermo di un computer, monta in bici, in auto, corre in bagno. Immaginiamoli tutti, proprio tutti, oggi.

Poi diciamo alla nostra immaginazione: ecco, ora fammi vedere Fiemme e Fassa tra cent’anni. E vedrete lo stesso posto, più o meno le stesse case e le stesse strade, abitati da una massa di sconosciuti. Certo, penserete, molti di loro saranno nipoti e pronipoti, se siete fortunati. Ma che vuol dire. La realtà è che tutto quello che siamo stati non sarà altro che un’assenza perfettamente rimpiazzata dalle nuove generazioni. Scusate se faccio un poco il menagramo. Ma a me sembra una grande lezione di umiltà. È un po’ il rendersi conto che la cosa che istintivamente crediamo più importante – noi stessi – è in fondo la più passeggera, la più evanescente, quella che lascerà meno il segno. È il mondo materiale che lasceremo dopo di noi la nostra vera eredità: questo pianeta Terra, e nel caso specifico, queste due valli, una attaccata all’altra con una dozzina di grumi di case, in costa o a fondovalle, e uno stradone statale che le percorre salendo, da Castello di Fiemme sin su al Passo Pordoi. E, tra cent’anni, come sarà? Gli edifici, vien da pensare, probabilmente non saranno molto differenti. Le case di montagna sono ormai un marchio del turismo alpino per cui non c’è motivo di cambiarle. Forse i campi della conoscenza che porteranno davvero un altro mondo saranno due: trasporti e comunicazione.

Da noi viaggiare è dura, le strade sono poche, e d’inverno bisogna mantenerle praticabili. Ma consideriamo la storia del trasporto in valle da una prospettiva di lunga durata. Dopo cinquemila anni di cavalli, muli e carretti, il progresso ha iniziato ad accelerare. Ai primi dell’Ottocento arrivò la locomotiva e pian piano si diffuse anche da noi. La Ferrovia del Brennero la costruirono gli austriaci nel 1859. Il trenino da Ora a Predazzo, invece, lo fecero solo negli anni della Grande Guerra, per portar su soldati e materiali e difendere il Lagorai dal nemico invasore (che fu l’Italia a dichiarare guerra all’Austria, ricordiamolo). Ma per allora, il secolo lungo del vapore era già al suo termine, sostituito dall’era del motore a scoppio.

L’automobile (gli inglesi all’inizio la chiamavano “Horseless carriage”, e cioè “Carrozza senza cavalli”) arrivò a fine Ottocento. La FIAT fu fondata nel 1899, ma la Peugeot già costruiva auto nel 1890 e lì iniziò il secolo lungo del motore a scoppio, che tra l’altro ci ha permesso di volare, cosa mica da poco. Oggi, a inizio 21esimo secolo, il motore a scoppio sta per lasciare il passo al motore elettrico. E già ci stiamo abituando. Ma vista l’accelerazione del progresso, non è difficile prevedere che fra un secolo ci sarà chissà quale nuova fonte d’energia. Quale, non lo sappiamo, ma una speranza io ce l’ho. Forse sarà una forma di trasporto senza ruote. Pensate che rivoluzione se un giorno si potrà viaggiare per le nostre valli con, che ne so, veicoli a campi magnetici che ci permetteranno di filare a cinquanta metri d’altezza, tutti ben separati da un sistema di guida automatico, senza la necessità di dover costruire ulteriori strade, gallerie, strisce d’asfalto e ponti di cemento armato. Che godimento, per noi, per la fauna (vabbé, passeri a parte, che dovranno abituarsi a scansare questi aggeggi volanti) e per la natura tutta. Consiglierei solo ai futuri amministratori locali di mettere leggi ferree contro l’uso di questi veicoli alle alte quote. Che si debba faticare un minimo per arrivare in vetta, sarebbe una misura saggia.

Quanto alla comunicazione, figuriamoci dove saremo. I quarantenni di oggi sono stati bambini senza internet, e gli smartphone girano, da quanto? Non più di una ventina d’anni se pensiamo che il primo Blackberry abbordabile uscì nel 2002. Il ritmo di sviluppo del digitale fa paura e, per certi versi, i due anni di Covid, lo hanno reso ancor più pervasivo, con milioni di persone che hanno iniziato a lavorare da casa, al computer. Da qui la domanda fatidica: ma non è che fra cent’anni sarà così facile incontrarsi virtualmente – in 3D, per allora, immagino – che alla fine non si uscirà più di casa? Poveri bar. E povera umanità.

Magari la nuova tecnologia del Metaverse (le realtà virtuali in cui uno si crea un proprio alter ego e ci vive come se fosse in un mondo “reale”) sarà così sviluppata che in molti la montagna se la godranno standosene chiusi in camera, in qualsiasi angolo del pianeta. Orca, e se va così e viene a mancare il turismo? Secondo e ultimo consiglio agli amministratori: correte a mettere il copyright su ogni immagine delle nostre montagne. Così, se uno vorrà fare l’alpinista in Metaverse e arrampicarsi, facciamo, sulle Torri del Vajolet, dovrà pagare un tot. E i valligiani, tranquilli, incasseranno le royalties senza l’intrusione del turismo, e potranno andarsene al bar o a farsi un giro in bici.

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