Gino Bellante: il ricordo

Muovendoci tra gli ultimi quadri rimasti a terra, attraversiamo cautamente i locali della piccola bottega di Gino Bellante a Cavalese; ad aprirci le porte della bottega e della memoria è Edmondo Trentin, figlio di una delle sorelle di Bellante. Edmondo, rimasto orfano di padre quando era ancora molto piccolo, aveva istintivamente riconosciuto nello zio Gino, più che una figura paterna, una guida generosa di ispirazione e insegnamenti. Oggi, mentre lo storico atelier di Via Alberti viene svuotato delle ultime opere, Edmondo ci lascia il suo ricordo delle ore passate in compagnia dello zio.

Non è un caso che i ricordi affiorino proprio qui, all’interno dell’atelier che fece da sfondo all’intera esistenza di Bellante. Un negozio di frutta e verdura che la madre, Virginia, aveva aperto per vendere i prodotti dell’orto di famiglia coltivato dal marito: “In realtà – ricorda Trentin – ho sempre avuto l’impressione che quello fosse il luogo in cui la nonna, figura matriarcale e vero capo della famiglia, relegasse tutti i maschi di casa per tenerli lontani e “proteggere” quella che era la vera attività di sostentamento, la Pensione Bellante, che lei stessa aveva fondato a metà degli anni ‘30. Nella bottega, infatti, prima ci mandò a lavorare il nonno, subito dopo zio Gino e infine anche io e mio fratello, nei periodi liberi da impegni scolastici, era qui che, venivamo a passare i pomeriggi, osservando lo zio dipingere, appollaiati sui gradini all’ingresso della bottega.”

Bellante aveva frequentato le scuole di Cavalese fino alla terza media, dopodichè, la madre, la prima ad essersi accorta del suo talento, l’aveva messo all’opera affidandogli le decorazioni di arredi e mobilia: “Gino, in verità, avrebbe voluto andare in seminario, credo la sua fosse una vera vocazione. Nell’atelier abbiamo rinvenuto decine e decine di testi sacri, bibbie e vangeli, alcuni anche molto antichi, uno risalente addirittura al ‘700. Nonna Virginia, però, stroncò la sua aspirazione sul nascere poiché, a quei tempi, per entrare in seminario, era necessario portare una dote, cosa che la famiglia proprio non si poteva permettere”. Per lo stesso motivo, ma anche perché considerato un ambiente “promiscuo” Bellante si vide negare dalla madre anche la possibilità di frequentare l’accademia d’arte, ma non bastò di certo questo a fermarlo. “I primi insegnamenti li apprese dal maestro Molinari di Cavalese, talentuoso insegnante di musica e arte, successivamente, dopo essere rientrato dalla guerra, quando aveva poco più di vent’anni, conobbe una pittrice austriaca, una sfollata di guerra che visse per qualche anno a Cavalese; aveva una formazione accademica e da lei imparò come usare l’olio, imparò la tecnica e poi la rese sua, la personalizzò. Non credo sia stata una grande rinuncia quella dell’accademia, mio zio era uno spirito libero, indipendente, non sembrava essere “padrone” della propria spinta creativa, sembrava piuttosto esserne dominato, come se la sua mano fosse semplicemente il tramite, il “medium” tra la Natura, soggetto di quasi tutta la sua produzione, e la tela, o la tavola.”

La Natura, dapprima quella morta e poi quella ancor più generosa dell’ambiente circostante, fu infatti protagonista di quasi tutte le opere di Bellante; subito dopo la Guerra, dalla quale si narra fece ritorno con ancora indosso la divisa tedesca (di fatto nazista, era stato arruolato nella contraerea a Bolzano) Bellante si stabilì nel retro dell’ortofrutta di famiglia dove, con estrema cura e senso estetico, creava meravigliose composizioni di frutta e fiori per dar loro nuova vita attraverso le sue tavole: “Gino dipingeva nel retro e ogni volta che un cliente entrava in bottega, si affacciava con il pennello tra i denti, e lo serviva con il camice e le mani imbrattate d’olio. La sua naturale propensione al gesto rapido, a queste pennellate molto veloci ed energiche credo sia stata un po’ il frutto della necessità di ottimizzare il tempo a disposizione; per via delle continue interruzioni quando lavorava in bottega ma anche, per via della logistica, quando, la domenica, dopo aver dato lezione di catechismo, si caricava tutto il necessario in spalla e si dirigeva a piedi verso i Dossi di Cavalese. Gino non ha mai avuto nè bici nè auto. I suoi quadri raccontano esclusivamente i luoghi che riusciva a raggiungere a piedi. Salvo, negli ultimi anni, poco prima di lasciarci, quando non era più in grado di spostarsi, dipingeva solo ciò di cui aveva visione diretta quindi, anche per via di queste limitazioni, diventó estremamente rapido riuscendo a terminare un quadro anche in sole due ore.”

Ad influenzare la sua arte furono soprattutto gli impressionisti francesi, i macchiaioli toscani, ma in alcuni dei suoi lavori sono riscontrabili anche influenze cubiste e morandiane. La pittura non fu l’unica forma d’arte alla quale si appassionò Bellante: “Amava molto la musica classica, Beethoven in particolar modo, e poi i barocchi come Vivaldi e Corelli. E amava l’opera di Verdi e Rossini, in particolare le opere più “vivaci”. Ogni primavera si assentava per qualche settimana, si metteva in viaggio e tra le sue mete c’erano spesso i più celebri teatri d’opera, come quello di Parma. Prima di partire studiava l’opera sul libretto, così da essere preparato e quando rientrava la ricordava perfettamente a memoria. Nutriva anche un profondo interesse per i luoghi di culto dove, per ammirare meglio le volte affrescate, era solito sdraiarsi lungo la navata delle chiese, cosa che gli procurava immancabilmente problemi con i custodi di turno…”

E fu proprio al ritorno da uno di questi viaggi che Bellante ritrovò la sua bottega trasformata in atelier: “Fu mia madre ad occuparsene; il negozio di frutta e verdura non aveva mai avuto grandi entrate…io stesso non ricordo di aver mai visto incassare mio zio, anzi, ricordo che quando le signore gli chiedevano di “segnare” la spesa per pagarla a fine mese, lui annotava la cifra su un pezzo di carta volante che provvedeva a cestinare nonappena la cliente usciva! Forse era un modo tutto suo per fare beneficenza, ma non era l’unico in famiglia. In albergo si era soliti dare ospitalità a persone indigenti, a volte anche per molte settimane. Si mangiava tutti attorno allo stesso tavolo, c’era un profondo senso di condivisione e Gino, che era un tipo simpatico e amava la compagnia, si divertiva a raccontare barzellette che, attraverso le sue parole, uscivano come sceneggiature di un film.”

Nonostante fosse una persona creativa, appassionata e che sapeva stare tra la gente, sembra che Bellante non abbia mai dato spazio ad una vera e propria relazione amorosa: “Una volta andammo insieme a Parigi e ricordo che una sera, camminando per Montmartre, si lasciò andare ad una lunga riflessione sull’amore. Si potrebbe dire che la sua fosse una visione piuttosto platonica ma non è da escludere che fosse rimasto in qualche modo “soggiogato” dalla figura materna, così onnipresente, imponente e autoritaria.”

Non sono mancate però le ammiratrici, alcune anche nell’ambiente scolastico dove era stato invitato ad insegnare durante gli anni ‘70 e ‘80. “Gino insegnava alle scuole elementari, inizialmente solo qualche comparsa sporadica poi, via via, le collaborazioni divennero sempre più frequenti. Il suo era un approccio quasi maieutico, cercava di mettere i ragazzi nelle condizioni migliori affinché riuscissero a guardarsi dentro, a capirsi per poi trovare un rapporto personale con l’arte e la pittura. Dimostrava empatia nei loro confronti, e immagino sia per questo che l’atelier abbia a lungo custodito molti disegni di ex alunni così come le loro lunghe lettere di ringraziamento.”

Leonilde Sommavilla

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