Dal numero estivo dell’Avisio, la rubrica “Mondo Foresto”, a cura di Guido Bonsaver, professore di Storia della cultura italiana all’Università di Oxford.
Nelle settimane scorse si è parlato molto di un film, Volevo nascondermi, che narra della vita del pittore Antonio Ligabue. Vissuto tra un paesino della Svizzera tedesca e la pianura padana, Ligabue fu un personaggio difficile, le cui turbe psichiche lo portarono in manicomio più d’una volta. Il film ha ricevuto grandi onori e riconoscimenti, a partire dal premio a Elio Germano come miglior attore protagonista al Festival di Berlino, meritatissimo. Ma non è del film che vorrei parlare. Piuttosto, il modo con cui il regista, Giorgio Diritti, si è avvicinato al personaggio Ligabue mi ha fatto pensare ai nostri “matti”, o almeno a quelli che giravano in Val di Fiemme e Fassa quando ero bambino.
Una parola, quindi, sul film. La prima inquadratura ci mostra un solo occhio di Liguabue, che strabuzza da sotto un giaccone in cui ha sprofondato il capo. Stacco. Siamo noi dentro quel rifugio improvvisato, e la cinepresa in soggettiva ci mostra quello che Ligabue vede: la normalità di un ambulatorio ospedalistico. Ma non c’è normalità in quello sguardo: i movimenti convulsi, il mugulare della voce ci danno la misura del terrore che incute in lui quella normalità, che teme, e da cui vuole fuggire. La tecnica narrativa di Giorgio Diritti è già tutta in quella prima scena. È la storia di un essere umano condannato alla solitudine dalla sua diversità: una diversità che non è sociale o sessuale ma del tutto psicologica. Se Ligabue fosse una tartaruga, sarebbe una tartaruga nata senza guscio. Se fosse uccello, sarebbe nato e cresciuto senza penne. Da qui la sua necessità di sfuggire il clamore del mondo, gli scherzi dei ragazzini, e le sconfitte continue della sua incapacità di adeguarsi alle regole e ai costumi che lo circondano.
Gli scherzi dei ragazzini. Questa credo sia stata la molla che ha fatto scattare i ricordi della mia giovinezza. Quanti di noi sono stati uno di quei ragazzini? La mia esperienza è limitata, ma forse non sbaglio nel dire che ogni paese, nel tempo, ha avuto il suo “matto” o la sua “matta”, per quanto i loro genitori cercassero di tenerli a bada, chiusi in casa o, come capitava a Ligabue, in visita a qualche istituto di cura. I ragazzini, si sa, possono essere di una crudeltà potente e innocente allo stesso tempo. E certo non siamo qui a fargliene una colpa; figuriamoci; meglio riflettere su quanto sia cambiata invece la comunità degli adulti, da allora. Nel giro di un paio di generazioni, il cambiamento è stato enorme, e dovremmo esserne orgogliosi.
Oggi proliferano le associazioni di volontari che si battono per alleviare le fatiche e le ansie di chi è stato meno fortunato di noi. In passato questo ruolo era lasciato alla Chiesa Cattolica. Le parrocchie sono state per secoli forse l’unico rifugio di chi, come dice il titolo del film di Ligabue, ‘voleva nascondersi’, impauriti dalla realtà che li circondava, dalla crudeltà con cui le loro disabilità venivano derise e insultate. Le parrocchie hanno avuto un ruolo fondamentale. Al di là di questo, i figli “sfortunati” venivano tenuti chiusi in casa, magari relegati in soffitta come una colpa da nascondere. Il volontariato, invece, era diretto verso il “diverso” fuori valle, addirittura fuori d’Italia. Mi riferisco alla grande tradizione dei missionari trentini in Africa e altre parti del mondo. Oggi, questa tradizione esiste ancora ma i dati statistici dimostrano come i numeri attuali siano esigui in confronto anche solo a poche generazioni fa. Molto è cambiato, e certamente la società di oggi è più laica, ma vorrei credere che questo sia anche dovuto al fatto che, oggi, siamo molto più coscienti della diversità tra le nostre valli, e del dovere di proteggerla, senza andarla a cercare in altri continenti (dove continua a esserci, purtroppo). Da qui il volontariato locale, che oggi, appunto, è una grande risorsa.
Nel ricordo, invece, emerge quello che era l’atteggiamento degli adulti, non quello, inevitabile, di noi ragazzini. Ricordo più di un episodio in cui erano gli adulti a farsi gioco di quel paio d’individui che il paese definiva un po’ “matti”. Non entro nel dettaglio per rispetto delle persone, ma ricordo bene i sorrisi e le battute cattive. Il disprezzo malcelato. Ricordo anche il razzismo vissuto come normalità, quasi inconsapevolmente. L’anti-meridionalismo, senza dubbio (ma quello gira ancora, anche se il meridione sono diventati gli extra-comunitari). Anche l’antisemitismo, a volte: ricordo come fosse oggi la madre di un amico d’infanzia, una signora gentile ma un poco autoritaria, che ogni tanto, nel redarguire il figlio perché insisteva nel chiedere, che ne so, un biscotto, gli rispondeva “Tàsi, ebreo!”. Ricordo ancora il mio stupore, non perché fossi scandalizzato, ma perché non sapevo cosa fosse questa brutta cosa, l’ebreo. Dovetti chiederlo a mia mamma.
Altre forme di diversità erano semplicemente soppresse o auto-represse: come l’omosessualità. Ai miei tempi, siamo a fine anni Sessanta, tra ragazzini ci si dava del ‘reciòn’ come insulto ma, ora che ci penso, mica era visibile, in paese, l’omossessualità. Statisticamente parlando, credo sia impossibile che tra di noi non vi fossero omosessuali o lesbiche, di fatto o di pensiero. Ma era una realtà del tutto repressa, presente solo come insulto e al massimo vista da lontano sullo schermo di un cinema. In televisione? No; era appena arrivato il secondo canale RAI e se a queste cose si accennava, era certamente dopo Carosello, quando noi si era tutti a nanna.
Oggi di diversità, fisiche, psicologiche e sessuali, si parla apertamente. Magari c’è ancora chi vorrebbe negarle, togliendo loro il diritto a un’esistenza dignitosa, ma è parte di un dialogo, di una discussione che qualche generazione fa era semplicemente repressa. Ecco. Ogni tanto, guardarsi indietro è utile per capire chi siamo. Come nelle gite in montagna, quando ci fermiamo a tirare il fiato e per qualche secondo ci si guarda indietro. Il fondovalle appare lontano, e basta quella vista a inorgoglirci per quanta strada abbiamo fatto.