I naturalisti Aldo Martina e Chiara Bettega, autori del libro “Sulle ali di cristallo – Un viaggio fantareale attraverso i cambiamenti climatici”, raccontano come l’aumento della temperatura mondiale metta a rischio la sopravvivenza di alcune specie e di interi ecosistemi.
Quando si parla di cambiamento climatico, la discussione è spesso incentrata sull’uomo. Usciamo da questa visione antropocentrica, per focalizzarci su flora e fauna. Immaginiamo di addentrarci in una foresta alpina o su qualche sentiero di montagna… quali sono i primi segnali che noteremmo di qualcosa che sta cambiando?
Aldo Martina: “La nostra percezione individuale sugli effetti dei cambiamenti ambientali è in genere molto limitata e se ci fermiamo a cercarli nel nostro ristretto raggio d’azione quotidiana non è detto che li individuiamo in modo chiaro, anche perché la loro intensità non è equivalente ovunque e in tutti gli ecosistemi. Addirittura, fra questi ultimi, sono proprio i più estremi, dove gli insediamenti umani sono oltretutto meno presenti, a soffrirne di più… ci riferiamo per esempio all’Artico o alle cime delle montagne. Tuttavia, se ampliamo la prospettiva e analizziamo su larga scala, ecco che i segnali diventano più evidenti. Per fare un esempio che ci riguarda molto da vicino, guardiamo come le recenti e anomali perturbazioni atmosferiche, in particolare la tempesta Vaia, insieme ad una generalizzata crisi idrica dovuta a mancanza di neve e di pioggia e agli inverni più caldi e contratti, hanno fatto esplodere demograficamente il bostrico dell’abete rosso (Ips typographus), trasformando la popolazione di questo piccolo coleottero da endemica a pandemica, con i risultati che abbiamo davanti ai nostri occhi. Ecco, se capiamo che tanti fenomeni che riguardano l’ambiente, la biosfera sono riconducibili al clima che sta cambiando rapidamente allora siamo ancora sulla buona strada per prendere delle contromisure”.
Chiara Bettega: “Mi unisco ad Aldo ribadendo quanto possa essere difficile riconoscere dei cambiamenti nell’ambiente che ci circonda, a meno che non siano eclatanti, come appunto la pandemia di bostrico post-Vaia nei nostri boschi di abete rosso. Penso anche all’autunno anticipato in molti boschi decidui durante questa estate caratterizzata dalla siccità; un finto autunno, in realtà, dovuto ad un meccanismo di difesa delle piante, che per evitare la disidratazione hanno eliminato un organo, la foglia, che di acqua ne richiede molta per vivere e svolgere la fotosintesi. Si tratta di casi ben riconoscibili da tutti in quanto è piuttosto facile identificare un prima e un dopo, come nel caso dei boschi colpiti dal bostrico, o accorgersi che qualcosa sta succedendo nel periodo sbagliato, come nel secondo esempio. La maggior parte dei cambiamenti è però molto più criptica e complessa. Molti cambiamenti avvengono lentamente e spesso servirebbe una memoria di ferro per accorgersi che qualcosa non è più come un tempo. In effetti l’essere umano soffre di quella che gli scienziati chiamano shifting baseline syndrome, che si potrebbe tradurre con “sindrome da spostamento dei punti di riferimento”, ovvero una vera e propria mancanza di memoria ambientale, che spesso ci impedisce di vedere il cambiamento di lunga durata”.
In che modo gli animali e le piante stanno affrontando questo cambiamento?
Aldo Martina: “È complesso fare un discorso di validità generale, l’argomento, dal punto di vista di noi naturalisti, meriterebbe un’attenzione più ampia e diffusa. Sappiamo che sia fra le piante che fra gli animali esistono specie che traggono vantaggio dall’aumento delle temperature e altre che invece non lo tollerano e possono scomparire nel giro di poco tempo, talvolta neanche ce ne accorgiamo. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, la natura ci prova ad adattare le sue forme di vita ai cambiamenti (lo fa da 3 miliardi e 500 milioni di anni!) ma sono necessari tempi biologici per avere una eventuale risposta, tempi cioè molto lenti perché, affinché la risposta sia efficace e orientata verso la sopravvivenza, le varie specie necessitano di adattamenti che solo la genetica è in grado di fornire, e questo avviene, come si sa, per selezione naturale nell’arco di numerose generazioni. Ma se nel frattempo la situazione climatica continua a cambiare, la risposta, sempre che sia stata selezionata, non è detto che sia ancora efficace”.
Chiara Bettega: “Generalizzando, esistono sostanzialmente tre vie che gli organismi possono percorrere per affrontare il cambiamento e cercare di superarlo: spostarsi nello spazio, cambiare il proprio orologio biologico o adattarsi alle nuove condizioni. La prima opzione è sostanzialmente uno spostamento in cerca di condizioni ambientali – e quindi anche climatiche – idonee. In uno scenario di cambiamenti climatici lo spostamento, che si registra già per diverse specie sia animali che vegetali, si traduce in un movimento verso latitudini o altitudini maggiori. La seconda opzione si riferisce invece ad uno spostamento nel tempo, ovvero, cercare di regolare il ciclo biologico in funzione del cambiamento. Fingiamo ad esempio di essere un uccello migratore: semplificando al massimo, se a conseguenza di temperature più alte la primavera nelle aree di riproduzione arriva prima, dovrò cercare di anticipare il mio arrivo, in modo che il momento in cui le mie uova schiudono coincida con quello in cui vi è più abbondanza di risorse. Come per lo spostamento nello spazio, diversi studi stanno documentando cambiamenti nella fenologia – cioè il momento in cui accadono gli eventi durante il ciclo biologico – di specie sia animali che vegetali. Un organismo, infine, può cercare di adattarsi alle nuove condizioni, abituandosi a livello fisiologico, metabolico e comportamentale. Si tratta in questo caso di un cambiamento che richiede tempi ancora più lunghi”.
La natura, come avete detto, si è sempre adattata ai cambiamenti di condizioni. Cosa c’è di diverso questa volta rispetto al passato?
Aldo Martina: “Gli scienziati, tutti, dai biologi ai climatologi, dai geologi ai fisici dell’atmosfera agli statistici delle popolazioni concordano che è la velocità con cui sta avvenendo il surriscaldamento, con tutte le conseguenze derivate da esso, che – per quanto se ne sa – non ha avuto eguali nella storia della vita sulla Terra. In ogni caso, se anche fosse successo un episodio simile, non c’erano certo 8-10 o chissà quanti miliardi di uomini da sfamare, far bere, far vivere più o meno decentemente. Non si tratta di fantascienza, se i mari si alzassero di livello di appena un metro, a causa delle calotte polari che stanno fondendo, scomparirebbero intere aree geografiche costiere con i relativi insediamenti: villaggi, città, metropoli i cui abitanti saranno costretti ad andare altrove, incrementando le migrazioni già note con quelle causate dal global warming. Questo problema è particolarmente noto in Asia dove, proprio per questo motivo, la Birmania, in parte la Malesia, e nei prossimi anni anche l’Indonesia, hanno spostato le loro capitali in aree più interne; Giakarta, con 30 milioni di abitanti, si prevede sprofondi entro il 2050, perciò il governo ha deciso di trasferire la capitale indonesiana addirittura nel Kalimantan (Borneo). A tutto questo poi si aggiungono gli effetti collaterali, per esempio la salinità che le acque marine porterebbero risalendo le foci dei fiumi, con ulteriore perdita di acqua per l’agricoltura, l’allevamento e il fabbisogno umano”.
Chiara Bettega: “La grande novità che abbiamo introdotto noi esseri umani, più o meno consapevolmente, è la velocità. Non solo siamo diventati noi stessi una specie che “va di fretta”, ma le nostre azioni si traducono in un cambiamento sempre più rapido anche per gli ecosistemi. È vero che il clima terrestre è sempre stato soggetto ad oscillazioni e cicli, ma oggi sta cambiando molto più in fretta di quanto non sia mai avvenuto. Non è poi solo una questione di clima. Gran parte degli stress a cui gli ecosistemi sono sottoposti derivano prima di tutto dagli enormi cambiamenti che noi esseri umani imponiamo direttamente, con la distruzione e frammentazione degli habitat per far posto alle nostre città, le nostre strade, le nostre attività. Siamo una specie invasiva per eccellenza! Il cambiamento del clima si inserisce quindi in un quadro già di per sé deteriorato e agisce come un catalizzatore, cioè accelera ancor più il cambiamento”.
Quali sono le specie più a rischio nell’area alpina?
Aldo Martina: “Le specie più a rischio sono quelle maggiormente specializzate a vivere tutto l’anno alle quote più alte, al freddo e con la neve per intenderci. Ci riferiamo per esempio alla pernice bianca, alla lepre variabile e al fringuello alpino di cui si sta occupando Chiara Bettega in quanto “termometro” biologico della situazione sulle Alpi e altri massicci europei. Sono animali che soffriranno ovunque per l’aumento medio delle temperature in quota, tenderanno a salire ancora più in alto finché ci sarà spazio dopodiché nell’ipotesi peggiore si estingueranno, in tempi diversi a seconda dei massicci. Nel frattempo i naturalisti, i biologi e le istituzioni preposte alla loro conservazione continueranno a monitorare ogni singola popolazione anche per contenere qualche fattore aggiuntivo che potrebbero nuocere alla loro sopravvivenza, oltre ai cambiamenti del clima; ci riferiamo ad esempio al disturbo diretto causato dalle attività umane alle quote medio-alte.
Chiara Bettega: “Le specie che vivono in alta quota sono le più minacciate dal cambiamento climatico non solo in area alpina, ma in generale in tutti i sistemi montuosi del pianeta. Per alta quota si intendono gli ambienti presenti al di sopra di quella che viene chiamata la “linea degli alberi”, ovvero tutto ciò che sta al di sopra di dove finisce il bosco. Se il destino dei ghiacciai è ormai drammaticamente sotto gli occhi di tutti (ma forse non tutti sanno che anche i ghiacciai sono la “casa” di numerose, piccolissime specie, che ovviamente non se la stanno passando bene), meno conosciuta è la situazione delle praterie alpine, altro grande ecosistema a rischio. Come abbiamo detto in precedenza, con l’aumento delle temperature molte specie si stanno spostando verso l’alto. Ciò che stiamo osservando in montagna è perciò la risalita dei boschi e degli arbusteti, favorita anche dall’abbandono dei pascoli alpini. Piano piano alberi e arbusti portano via spazio alla prateria, la quale a sua volta cerca di espandersi verso l’alto. Il problema delle montagne però è che salendo diventano più impervie e si restringono, quindi lo spazio a disposizione per la prateria si riduce sempre più. Le specie legate a questi ambienti, pertanto, potrebbero scomparire proprio per mancanza di spazio vitale. Allo stadio attuale non ci sono ancora vere e proprie misure di conservazione volte a proteggere queste specie, sostanzialmente perché lo studio degli effetti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi alpini è relativamente recente, ostacolato dalle oggettive difficoltà che l’alta quota pone. Tuttavia, l’attenzione della comunità scientifica sta aumentando in tal senso e questo ha permesso di identificare i problemi e i rischi sopra elencati e di documentare i primi cambiamenti e le prime perdite in termini di popolazioni.
Torno a mettere l’uomo al centro della visione… la perdita di biodiversità cosa può comportare per noi?
Aldo Martina: “La perdita di biodiversità significa mettere un’ipoteca alla qualità di vita se non addirittura alla nostra esistenza. La ricchezza della vita e le diverse forme biologiche che l’animano ci consentono ogni giorno di nutrirci di frutta, verdura, ortaggi che esistono grazie agli animali impollinatori, soprattutto insetti ma anche uccelli e pipistrelli. Molti principi attivi presenti nei medicinali provengono dalle piante, l’acido acetilsalicilico presente nell’aspirina l’abbiamo scoperto grazie alla corteccia del salice bianco, tanto per fare un esempio. Attualmente si stanno studiando le proprietà della “draculina” come farmaco anticoagulante per prevenire gli infarti, e questa la troviamo nella saliva di tre specie di pipistrelli ematofagi che vivono esclusivamente in America centrale e meridionale. La lista degli esempi è lunga ma lo sarebbe ancora di più, come la nostra qualità della vita, se non rallentassimo la perdita di biodiversità”.
Chiara Bettega: “La biodiversità, al pari di qualsiasi tipo di diversità, significa anche ricchezza. Un ecosistema bio-diverso, ricco di specie diverse che svolgono funzioni diverse non solo ha più possibilità di resistere ai cambiamenti – di essere cioè resiliente, ma offre all’uomo dei servizi che spesso ignoriamo: dalla varietà di cibi ai luoghi in cui trascorrere il tempo libero, fino alla protezione da rischi naturali. Così come la nostra società non funzionerebbe se non ci fosse una diversità di conoscenze, capacità e intelligenze, così anche nel mondo naturale non tutte le specie fanno tutto: ci sono specie più “eclettiche”, altre più specializzate e tutte servono a far funzionare al meglio l’ecosistema. Pertanto, perdere biodiversità significa indebolire gli ecosistemi e noi umani di conseguenza.
Sappiamo che per far fronte al cambiamento in atto sono necessarie misure sovranazionali e condivise, ma nel piccolo c’è qualcosa che ognuno può fare?
Aldo Martina: “Certamente le piccole azioni moltiplicate per centinaia e centinaia di milioni di persone fanno di sicuro la differenza, pensiamo allo spreco dell’acqua o al consumo passivo di energia elettrica. È fondamentale essere coscienti delle nostre azioni e degli effetti che queste possono causare nel tempo. Non è vero che certe abitudini, certe situazioni non possono cambiare, lo abbiamo dimostrato varie volte: quando è servito abbiamo orientato le scelte dei nostri governi, pensiamo alla messa al bando del DDT, dei clorofluorocarburi (CFC), alla riduzione nell’uso dell’olio di palma negli alimenti o alla chiusura delle centrali nucleari. Bene, ora si tratta di affrontare la battaglia di tutte le battaglie: contenere il riscaldamento globale”.
Chiara Bettega: “Come singoli possiamo cercare di comportarci da cittadini eco-consapevoli, ovvero consapevoli che le nostre azioni hanno delle conseguenze sugli ecosistemi; cercare di comprendere quali sono queste conseguenze e agire in modo da limitarle è un primo passo. Abbiamo anche un grande potere, sia come consumatori che come elettori, di orientare le scelte del sistema produttivo e di quello politico. Dobbiamo solo crederci un po’ di più. In questo senso, i ragazzi del Fridays for Future ci stanno dando un esempio importante: si può e si deve alzar la voce per farsi sentire. Bisogna però avere ben chiaro il problema e su questo forse c’è ancora un po’ di confusione, quando si parla di cambiamenti climatici e ambientali. Qui entriamo in gioco anche noi scienziati, che abbiamo il compito di trasmettere nel modo più chiaro possibile i risultati delle nostre ricerche. L’altro consiglio che mi sento di dare è di fare più esperienza possibile nella natura e della natura. Solo conoscendola possiamo imparare a coglierne la fragilità e a preoccuparci davvero per lei e, di conseguenza, per noi stessi”.
Monica Gabrielli