Il mondo in sessant’anni

di Guido Bonsaver

Privilegio raro di una rubrica come questa è quello di poter decidere ogni volta su che cosa scrivere. Naturalmente può essere anche una maledizione, in tempi di scarsa ispirazione, o una trappola dell’io, in quanto uno finisce spesso per parlarsi addosso. Ma questa è una volta speciale: scrivo al momento del passaggio ai sessant’anni, del sottoscritto così come di tutti quelli nati nel 1962 (e manca poco a quelli del ’63!). Propongo quindi un compromesso: scriverò a cavallo di questi sessant’anni, dei quali posso parlare perché “c’ero”, ma lo farò guardandomi attorno, descrivendo quanto ci circondava. È cambiato molto, il mondo, in sessant’anni.

Moena, 1962. Dei tanti hotel e grand hotel dalle facciate affrescate e i balconi di legno massiccio che vediamo oggi non ce n’erano che due o tre, dai muri scrostati. A dominare, erano i fienili, e le case col “volto” al piano terra, dove si tenevano le bestie. Il latte lo si andava a prendere con la celletta di alluminio, e il formaggio del caseificio puzzava di stalla, ma mica si sapeva che un giorno ci avrebbero fatto sopra il marketing chiamandolo “Il Puzzone”. Ora si trovano pure in giro i cartelli che informano il turista che siamo ne “I luoghi del Puzzone”. Alla vista di uno di quei cartelli, mia moglie, da buona foresta, mi ha chiesto un giorno se il Puzzone fosse una specie di Yeti, magari un po’ scadente nella toeletta mattutina, che si aggira tra i boschi della valle. Però, che idea: ci si potrebbe fare sopra un cartone animato. Puzzone, il gigante buono che vive sulle montagne fassane: salva i bambini cascati nell’Avisio e sconfigge i cattivi ficcandoseli sotto le ascelle. Puzzone, le caprette gli fanno ciao.

Predazzo, 1968. La banda girava con una divisa all’americana e dei cappelli alti alti, e si costruivano le case come se si volesse vivere in città. Erano fatte a condominio, coi balconi di cemento armato e le “sparàngole” di ferro battuto. Era un paese che voleva essere Trento. L’esatto contrario sessant’anni dopo. Oggi scappano dalle città e tanti comprano la prima o la seconda casa in Fiemme e Fassa per godere della vita in montagna. Oggi insegniamo loro il Wellness, a vivere bene. Orca. Da bambino, c’erano bar in cui se entravi – lo facevamo per andare a chiedere i “piatòi”, i tappini metallici con cui poi gareggiavamo facendo una pista sul terriccio di qualche cortile – ti trovavi ad attraversare una nebbia di fumo che in un minuto respiravi un pacchetto di nazionali senza filtro. Il Wellness ce lo facevamo camminando a piedi, dappertutto. Anche questa è un’altra epoca. Lo stato brado in cui vivevano i bambini. Altro che mamma e papà che ti danno il passaggio in auto di qua e di là, e il telefonino a dodici anni, “così sappiamo dove sei”.

Le mamme, allora, avevano una nozione molto vaga di dove fossero i loro figli, dalle due del pomeriggio sino a ora di cena, e pure la sera, d’estate. C’era la scusa dell’Oratorio, il campetto da gioco e uno stanzone con calciobalilla e un paio di altri giochi per bimbi timorosi di Dio. Ma in realtà noi si viveva l’anarchia. Nel bene: ah, la libertà, e le mostruose bambinate, come andare a rubare le carote negli orti, anche se non avevamo fame. E nel male: come, d’inverno, andare a sciare camminando con gli scarponi già ai piedi e gli sci in spalla (che pesavano tre volte quelli di oggi), giù, fino allo skilift di Löse, verso Ziano. Ricordo ancora le lacrime, tornando a piedi, al buio e al gelo, con gli scarponi slacciati, e in testa il berretto di lana e gli occhialoni, come cavalieri appiedati al ritorno da una funesta crociata al polo nord. Oggi, chiamerebbero il Telefono Azzurro per denunciare i loro genitori.

Sessant’anni fa il mondo era anche più misterioso. O meglio, si era molto più ignoranti di quanto succedeva fuori valle. C’era la televisione, con due canali solo (e da poco: Rai Due nacque nel 1961) dopo di che la Gazzetta dello Sport era di gran lunga il giornale più sfogliato, al bar. Oggi si parla di rivoluzione digitale, e in effetti è stata una rivoluzione. Ma anche noi, negli anni Settanta abbiamo avuto la nostra rivoluzione. Più che digitale è stata catodica, però.

La Costituzione garantiva libertà di parola e così si era scoperto che era legale creare una propria radio o televisione, purché locale. Pure Berlusconi aveva iniziato così. Col trucchetto che, creando una rete di televisioni locali che trasmettevano le stesse cose, si fece tre canali nazionali. Il resto è storia. Ma nelle nostre valli, la rivoluzione catodica la portò TV Koper-Capodistria, che trasmetteva da oltre confine. Fu una rivoluzione catodica, pubblicitaria e semi-pornografica, diciamolo. Da lì arrivavano i primi film spinti, osé si diceva, che anni dopo impazzavano in cento canali sui nostri schermi, anche prima di cena, bastava cercare un poco col pomello del sintonizzatore. E la pubblicità, ore di pubblicità, film in cui c’era uno spot ogni cinque minuti. E la RAI a corrergli dietro, con gli spot dentro i programmi, col presentatore che dopo l’intervista con la star di turno, si alzava in piedi e passava a illustrarti i meriti dell’arredo da cucina Costopoco.

Ma mi fermo qui. Che un difetto dei vecchietti è quello di parlare a vanvera. Oddio, in realtà è un privilegio, dei vecchietti così come dei bambini, e dei matti, quelli veri, quelli seri di una volta. Mica i matti di oggi, che si fanno i selfie e te lo scrivono su Facebook e su Instagram, e vanverano di, oh, quanto sono matti…

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