Inverno liquido

Quale futuro per lo sci di massa? Lo raccontano in un libro Maurizio Dematteis – giornalista, ricercatore e scrittore specializzato in temi sociali e ambientali e in tematiche legate ai territori alpini – e Michele Nardelli, formatore e saggista, ex consigliere regionale del Trentino Alto Adige. Il volume “Inverno liquido”, uscito per Derive&Approdi a fine 2022, è un reportage dalle terre alte, Alpi e Appennini: imprenditori, operatori e testimoni del mondo dello sci raccontano la montagna che cambia, di fronte a mutamenti climatici irreversibili e modelli turistici da ripensare. Il libro verrà presentato a Cavalese il 30 marzo alle 20.30, in biblioteca. Un’occasione per parlare di fallimenti e occasioni mancate, ma anche di opportunità e percorsi virtuosi di riconversione. Abbiamo intervistato uno degli autori, Michele Nardelli, per anticipare le tematiche principali del volume.

Cosa intendete per “inverno liquido”?

Vogliamo dire che la crisi climatica non è e non sarà un evento passeggero e, se non cambiamo radicalmente il nostro modello di sviluppo e il nostro modo di vivere che ci hanno portati a questo esito, domani sarà peggio di ieri, il 2023 sarà peggiore del 2022 e così via. Anche il susseguirsi di eventi estremi, spesso fra loro apparentemente contraddittori con punte di freddo e di caldo accentuate, rientra perfettamente in questa previsione. L’inverno sarà sempre più breve e più liquido, l’estate sarà sempre più estesa e più calda. Lo zero termico si alzerà a quote sempre maggiori e così la quota neve: il Limite di Affidabilità della Neve (LAN) cresce di 150 metri per ogni grado di aumento della temperatura, il che significa che nelle Alpi (un’area fragile dove gli effetti della crisi climatica sono più evidenti) il LAN crescerà da qui all’anno 2050 di 450 metri. In quel tempo saranno scomparsi gran parte dei ghiacciai alpini, con conseguenze gravissime per l’approvvigionamento idrico delle città, per l’agricoltura, per le centrali idroelettriche… insomma per la vita delle persone.

Questo, scrivete, è il momento di scegliere tra il “non più” e il “non ancora”: qual è il cambio di paradigma a cui è chiamata la società?

Non è un problema di scegliere. Nella transizione fra il “non più” di un vecchio modello insostenibile e il “non ancora” di una transizione ecologica che tarda ad arrivare, ci siamo da troppo tempo. Già all’inizio degli anni ’70 il pianeta ha cominciato a consumare più di quanto gli ecosistemi terrestri erano in grado di produrre ogni anno. Il risultato è che oggi il pianeta consuma quasi due volte quel che sarebbe lecito se non si vuole compromettere il diritto alla vita alle generazioni future. Vivevamo da sempre nella “società dell’abbondanza”, malgrado le risorse venissero spartite in maniera ineguale. Oggi siamo andati oltre. Ecco che s’impone un cambio di paradigma: la cultura del limite. Perché limitate sono le risorse, limitate sono le terre fertili, limitate sono le nostre vite. Immaginare la crescita infinita in un contesto segnato dal limite ci porterà a sbattere. I segnali sono inequivocabili.

La voce della scienza è ormai unanime nel dire che è necessario cambiare rotta e che bisogna farlo al più presto. Al di là dei proclami, però, chi ci prova spesso non è ascoltato. Pensiamo a Lorenzo Delladio, amministratore delegato de La Sportiva che ha lanciato, nel 2017, una nuova proposta di turismo a Passo Rolle. Secondo lei, a sei anni di distanza, quel progetto potrebbe avere un altro appeal e un altro esito?

Abbiamo scelto di dedicare alla vicenda del Passo Rolle un intero capitolo di “Inverno liquido”. Perché la vicenda che ha visto protagonisti Lorenzo Delladio e i suoi amici è emblematica. Sappiamo che cosa significa non essere ascoltati. E conosciamo le resistenze culturali, prima ancora che materiali, al cambiamento. Modificare il nostro modo di vivere richiede tempo, ma gli scienziati della Commissione sul Clima delle Nazioni Unite ci dicono che se non lo facciamo rapidamente le conseguenze saranno inimmaginabili. Per la prima volta nella storia umana viviamo un capovolgimento del rapporto fra tempi storici (quelli delle nostre esistenze) e tempi biologici (che procedono per ere geologiche). Questi ultimi corrono più veloci che mai. Assistiamo nel corso delle nostre brevi esistenze ad avvenimenti epocali come, ad esempio, la fine di un ghiacciaio che ha almeno 14 mila anni di vita (l’ultima glaciazione). Abbiamo bisogno di comunità e di gruppi dirigenti consapevoli di quel che sta accadendo e per questo la resistenza emersa verso il progetto di Delladio è ingiustificabile. Credo, in altre parole, che quel progetto sia ancora oggi di straordinaria attualità.

A inverni meno nevosi e più caldi le società impiantistiche rispondono con sistemi di innevamento artificiali sempre più sofisticati e in grado di produrre neve a temperature più elevate. Una cura o un palliativo?

In “Inverno liquido” parliamo di una forma di accanimento terapeutico verso un modello che ormai è alla fine. Se, nello specifico, consideriamo che oggi il 90% degli impianti vive grazie all’innevamento artificiale, il problema è serio. Perché l’acqua è un bene comune scarso, perché le Alpi sono il motore principale nella produzione di acqua per le città e le pianure del Nord. Ne parliamo diffusamente e vi dedichiamo un apposito capitolo intitolato “La grande sete”. Non serve essere Cassandre per prevedere quel che accadrà nella prossima primavera/estate con i bacini e i fiumi già a febbraio sofferenti. Non andrà in crisi solo l’industria della neve, ci troveremo con le regioni in aperto conflitto fra loro nella gestione delle Autorità di bacino. La scarsità d’acqua richiederà una conversione ad ogni livello, in primo luogo nella riduzione degli sprechi e delle perdite che sono il 42% del totale dell’acqua potabile (questo avrebbe potuto essere il grande obiettivo nell’utilizzo dei fondi del PNRR). E poi nel rendere obbligatorie le coltivazioni a goccia e nel favorire l’introduzione di nuove varietà vegetali resilienti, nella riconversione degli allevamenti verso modalità meno intensive, nella raccolta dell’acqua piovana nei fondovalle e nelle città, riqualificando la proposta sciistica e promuovendo un diverso rapporto con la montagna. Insomma, tutti dovranno fare la loro parte. Quanto ai bacini per l’innevamento artificiale realizzati in quota, al di là del tema non secondario dei costi economici e ambientali di realizzazione, in genere scaricati sulle risorse pubbliche, il problema è da dove si recupererà l’acqua necessaria. Perché, se l’approvvigionamento dovesse avvenire pompando l’acqua da valle, oltre alla limitatezza della risorsa, lieviteranno inevitabilmente i costi di produzione della neve artificiale (il costo è triplicato nel corso del 2022 per effetto della crisi energetica) rendendo questa soluzione ancor più insostenibile. Senza nemmeno toccare il tema – cruciale – delle temperature, che hanno reso inutili le attrezzature anche più sofisticate.

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Fiorenzo Perathoner, pioniere del Dolomiti Superski, nel vostro libro dichiara, con quello che lui definisce “pessimismo ragionato”, di essere consapevole che il numero di sciatori diminuirà sempre più. Dice anche che tra gli operatori c’è poca voglia di parlarne. Le difficoltà maggiori nel cambio di approccio al turismo invernale vengono più dagli addetti al settore o dagli utenti?

Il cambio di approccio deve investire tutti, gli utenti come gli operatori. Nel nostro viaggio fra Alpi ed Appennini abbiamo riscontrato molto cinismo, come a dire “facciamo funzionare il sistema ancora per i prossimi vent’anni e poi si vedrà”. Non mi sembra questo il modo migliore per farsi carico responsabilmente della transizione ecologica. Se non vogliamo il tracollo del turismo nelle terre alte è necessario che tutti gli attori si mettano subito ad immaginare scenari diversi. Dobbiamo dirci con molta onestà che l’industria dello sci di massa ha avuto a lungo andare un effetto pervasivo, impoverendo progressivamente l’economia tradizionale dei luoghi, favorendo il consumo abnorme di suolo con le seconde case, marginalizzando le imprese ricettive a gestione familiare laddove le grandi catene impongono filiere extraterritoriali, così da far prevalere l’aspetto quantitativo alla qualità dell’offerta. Senza parlare di quel che avviene sul piano patrimoniale, con l’ingresso di società che nulla hanno a che fare con il tessuto economico locale. Credo sia giusto raccogliere, a questo proposito, l’appello lanciato dal presidente dell’ASAT (Associazione albergatori e imprese turistiche del centro Fassa) Guglielmo Lasagna sull’urgenza di azioni concrete atte ad evitare che la crisi diventi la testa di ponte per la penetrazione della criminalità organizzata nei nostri territori.

L’alternativa, concreta, al tipo di turismo invernale attuale quale potrebbe essere?

La montagna è bella e ricca in ogni stagione. Purché sia abitata e resa viva dalle comunità che la abitano dodici mesi all’anno. Ho conosciuto Maurizio Dematteis, il coautore di “Inverno liquido”, al Sestriere, forse il simbolo di un’industria dello sci che ha preteso di trasferire la dimensione urbana in montagna. L’esito è inguardabile. Trasformare la montagna in “divertimentificio” significa snaturarne il valore e impoverirla. A quel modello che ha lasciato dietro di sé solo degrado e spaesamento, vogliamo contrapporre un’idea di turismo capace di entrare in relazione con il territorio, rispettoso dell’ambiente e della fragilità della montagna, capace di valorizzare quel che la natura sa dare in un rapporto co-evolutivo con la comunità che la vive, con la bellezza che esprime ma anche con la fatica di chi se ne prende cura quotidianamente. Nel nostro libro di queste alternative ne abbiamo raccontate molte, dalla Val di Funes in Sud Tirolo alla Val Germanasca in Piemonte, dalle cooperative di comunità della Valle dei Cavalieri nell’Appennino emiliano alla Comunità dei Custodi di Monte Mutria nel Matese. È questo, del resto, il cuore della proposta di Delladio per il Rolle o di quella dall’ex sindaco di Palù del Fersina Stefano Moltrer per il futuro della Panarotta.

Si avvicina l’appuntamento olimpico del 2026. Sostenibilità e grandi eventi possono andare di pari passo?

Se andiamo a vedere il bilancio di gran parte degli eventi olimpionici verrebbe da dire di no. Il lascito delle Olimpiadi invernali del 2006 a Torino e in Piemonte è stato disastroso, tanto sul piano delle opere realizzate e poi abbandonate, quanto dal punto di vista degli effetti sull’economia del territorio. Per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026, pure nate sotto l’insegna della sostenibilità (ma questa parola è ormai abusata e banalizzata), la strada imboccata è sempre la stessa e nel libro ne parliamo ampiamente. Ciò nonostante sostenibilità e grandi eventi non sarebbero di per sé in contrasto, purché si cambi radicalmente un approccio segnato dal “gigantismo”, nel mettere in relazione territori già strutturati per raccogliere grandi eventi avendo come riferimento ecosistemi che vanno oltre i confini tradizionali, sia nel coinvolgimento delle popolazioni locali nelle scelte. Ingredienti fondamentali se vogliamo che vi possano essere ricadute positive.

Non ci si salva da soli, scrivete: questo libro, quindi, non esaurisce l’argomento ma vuole essere il numero 0 di una collana. Secondo lei l’interesse a queste tematiche rimane all’interno di un ristretto circolo di interessati o la platea si sta allargando?

L’impressione che abbiamo avuto nelle decine di presentazioni sin qui realizzate è di un interesse crescente. Il tema trattato è quello dell’impatto delle crisi sugli ecosistemi. Non solo della crisi climatica, ma anche ambientale, sanitaria, idrica, alimentare, demografica, migratoria, economica, bellica ed altro ancora, che interagiscono fra loro. E, a proposito di ecosistemi, non solo le terre alte ma anche le pianure, le aree urbane e metropolitane, i fiumi e i mari. Occorre un pensiero che sappia proporre uno sguardo sistemico, consapevole della natura complessa del mondo in cui viviamo. Si tratta di un cambiamento profondo, come scrive Mauro Ceruti, rispetto ad un paradigma di semplificazione «che ci separa dalla natura, che ci chiude in confini nazionali, frammenta i saperi e irrigidisce le identità». Nasce da qui – e dal coinvolgimento delle persone e delle comunità che abbiamo incontrato nella realizzazione di “Inverno liquido” – l’idea di un collettivo di pensiero e di scrittura, per dar vita ad una collana editoriale che ci aiuti ad affrontare un cambiamento culturale non più prorogabile.

Monica Gabrielli

dentelin.eu
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