La nona montagna

di Guido Bonsaver

Ma com’è che raramente si vede un bel film ambientato sulle nostre montagne? Certo, girarne uno in un luogo costiero – sulle spiagge dell’Adriatico, o a Portofino, Capri o su un’isola delle Eolie – è logisticamente più semplice. E, figuriamoci, il bell’attore o la bella attrice risaltano meglio se appaiono con muscoli e curve esposti, piuttosto che intabarrati con maglioni, occhiali da ghiacciaio e berrettoni col pon pon.

Ma non è l’unico motivo. Bisogna riconoscere che alcune Film Commission – queste istituzioni regionali che investono nella promozione cinematografica dei loro luoghi – sono state più brave di altre. Ad esempio, quella pugliese, una regione che non vanta un passato nella storia del cinema, è riuscita a investire così bene che i panorami del Gargano così come quelli urbani delle sue città, sono entrati nell’immaginario di milioni di spettatori in Italia e all’estero. Senza parlare della Sicilia che, grazie all’ispettore Montalbano, ha creato una vera e propria industria del turismo cinematografico.

Naturalmente anche noi abbiamo la Trentino Film Commission (e non chiedetemi perché si sono tutti sentiti in obbligo di denominarsi in inglese, come se chiamarsi Commissione Film Trentino non attirasse capitali esteri). Non sono un esperto nello specifico, ma non mi sembra che sia ancora riuscita a rivaleggiare con le commissioni “di mare”. Attiva ormai da più di dieci anni, ricordo una delle sue prime co-produzioni, La prima neve (2013), di Andrea Segre, un film ambientato nella valle dei Mocheni. Un’occasione mancata, in cui Segre, regista del più bel film sull’Italia dell’immigrazione recente – Io sono Li (2011) – non è riuscito a ripeterne la magia una volta sbarcato in Trentino.

In questi ultimi mesi, però, ci siamo trovati in tanti ad ammirare un film – Le otto montagne – ambientato sulle Alpi, con la frustrazione – per chi è competitivo – di vederlo girato sulla cima di montagne che potrebbero essere la catena dei Lagorai, e invece sono quelle intorno a Brusson, in Val D’Aosta. Non è naturalmente una critica verso la Trentino Film Commission. La scelta dei produttori è conseguenza del fatto che il romanzo omonimo da cui è tratto il film, di Paolo Cognetti (premio Strega 2017), è ambientato in quegli stessi posti.

Ma parliamone comunque. È un film che racconta una storia che potrebbe essere quella di un’amicizia nata sulle alte quote della Val di Fassa così come della Val di Fiemme. Il blocco narrativo di base è molto semplice, quasi banale: ragazzo di città, studioso e di famiglia borghese, incontra ragazzo di montagna, ignorante e costretto a lavorare con lo zio casaro. L’amicizia che ne nasce è un incontro di opposti: tra la gentilezza fragile di uno, e la fisicità rabbiosa dell’altro, tra il vagabondare intellettuale e vacanziero di uno, e l’incatenarsi alle proprie radici dell’altro.

Si potrebbe dire che è un’associazione un po’ facile, soprattutto nell’idea del montanaro tutto muscoli e istinto, ma di poca cultura e dimestichezza nei rapporti sociali. È un po’ l’idea romanticheggiante dell’homme sauvage, l’uomo selvaggio a contatto con la natura e quindi misterioso, un po’ sinistro, irrazionale, spesso alcolizzato a forza di grappe e grappini. Sono così i montanari? Siamo così pure noi?

Certo che no. La cultura e l’amore per lo studio non sono valori che si misurano in base alla distanza da un centro urbano.

Ma certo pure che sì. Da che mondo è mondo, i contadini, che siano delle Alpi così come della pianura padana o delle risaie della Cina, hanno vissuto a contatto con la natura in modi che chi visita i loro posti per una vacanza estiva non può che immaginare. E allo stesso tempo le città hanno avuto da sempre il monopolio della produzione intellettuale e della “vita cortese”.

Quello che forse stona un poco in questo film, è che il ragazzo di città impara tante cose dal suo compagno contadino, ma invece quest’ultimo non impara niente, tanto che il primo finisce per diventare scrittore di successo e l’altro disoccupato e suicida in una baita sperduta. Ecco, in questo senso mi sembra un racconto che privilegia il punto di vista del “cittadino”, e finisce per fare dell’altro uno specchio, negativo o positivo che sia, ma comunque uno specchio bidimensionale. Sarebbe stato più originale vedere, per una volta, l’opposto: e cioè il contadino che alla fine del film ha una sua attività redditizia su, in montagna (che è poi la storia di tanti trentini) e l’amico laureato di città che finisce disoccupato, disperato e si butta sotto un autobus. O, senza farla tragica, ognuno che se ne va dietro ai cavoli propri.

Detto questo, la fotografia e le musiche del film sono eccezionali. Così pure il ritmo lento della narrazione, i suoi lunghi silenzi, che fanno pensare a capolavori del cinema come Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee e The Tree of Life (2011) di Terrence Malick. Bravissimi pure i due protagonisti, Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Non italiani sono invece i due registi – belgi, Felix van Groeningen e Charlotte Vandermersch – e il compositore della colonna sonora, Daniel Norgren, svedese. Le ballate ipnotiche di quest’ultimo sono una componente vitale del fascino e della poesia che ci avvolgono nelle lunghe immagini panoramiche delle alpi valdostane.

Un ultimo appunto: Norgren scrive canzoni country-blues, cantate in inglese. Ed è inevitabile chiedersi come sarebbe andata se le canzoni fossero state in italiano. In fondo, quella è la lingua parlata dai protagonisti. Viene quasi il sospetto che sia un po’ una cosa come l’inglese delle Film Commission. Cos’è, c’era paura che dei testi italiani non avrebbero attirato il pubblico internazionale? Sarebbe ridicolo: in fondo, da Nanni Moretti a Paolo Sorrentino, l’uso di canzoni italiane non hanno certo frenato il successo all’estero dei loro film. Forse Norgren è semplicemente un cantautore amato dai due registi (e infatti le canzoni sono tratte da un suo album del 2017, Alabursy).

Rimane solo la domanda: come sarebbe stata una colonna sonora musicale tutta italiana? Che canzoni, che parole, si sarebbe potuto scegliere per queste immagini di alta montagna? Certo non Vecchio scarpone. Speriamo che la prossima occasione veda la Trentino Film Commission in prima fila, e che questa volta le canzoni parlino la stessa lingua del racconto; magari, perché no, in ladino o in uno dei dialetti trentini.

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Un commento su “La nona montagna”

  1. Come il libro anche il film ha suscitato reazioni contrastanti. A molti è piaciuto molto, ad altri per niente. C’è dunque qualcosa che accomuna libro e film? Io devo dire che non l’ho trovato eccezionale.

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