Laghetti artificiali (anche) contro la siccità

Prima delle alluvioni in Emilia Romagna e di un maggio molto piovoso, l’inizio della primavera segnava già le prime dichiarazioni dello stato di emergenza per la siccità in diverse regioni, dalla Sardegna all’Alto Adige. Ora però c’è chi scommette che non solo l’aumento del numero di bacini di alta quota ma perfino un utilizzo diverso dell’innevamento programmato possano dare una mano contro la crisi idrica.

Da un lato c’è il dossier “Neve Diversa” di Legambiente e le rimostranze di molte altre associazioni ambientaliste che lo scorso inverno hanno alzato l’asticella delle polemiche sullo sfruttamento delle risorse idriche per preparare le piste in inverno; dall’altro ci sono gli impiantisti e i responsabili delle istituzioni turistiche che vengono accusati di chiedere sempre più neve, senza tenere conto delle esigenze della comunità. La scorsa estate in Valtellina accadde perfino che i responsabili delle aziende produttrici di energia non rilasciassero l’acqua per gli usi del fondovalle e per la regolazione dei laghi maggiori, preferendo conservarla per produrre energia elettrica quando la crisi avrebbe fatto salire i prezzi: fu necessario un intervento di Regione Lombardia perchè le decine di dighe riaprissero venendo incontro alle esigenze della popolazione. Quest’anno, a metà febbraio, il problema era già all’ordine del giorno e arrivava a toccare la fornitura di acqua ai cittadini e non solo l’irrigazione dei campi. La Provincia di Bolzano ha emesso una ordinanza per il risparmio idrico già a metà marzo. Il livello del Lago di Garda, mai così basso, spaventava tutti.

Secondo i dati dell’Ass. Naz. Bonifiche e Irrigazioni, il sistema di bacini artificiali sul territorio nazionale trattiene l’11% dei 300 miliardi di metri cubi d’acqua che cadono ogni anno in Italia. In Spagna, la stessa funzione raccoglie il 35%. In attesa delle prime indicazioni del neo Commissario per la siccità, Nicola Dell’Acqua, l’ANBI e Coldiretti tornano a riproporre il proprio “Piano Laghetti” che vorrebbe la realizzazione di ben 10.000 invasi (la consuetudine vuole che così vengano chiamati i bacini di piccola superficie) entro il 2030. In Italia, il 70% del consumo d’acqua avviene a fini agricoli.

Anche le terre alte dovrebbero essere interessate dalla realizzazione di questi invasi. Ora infatti i bacini artificiali in quota e perfino gli impianti di innevamento vengono accreditati come una delle armi più efficaci per contribuire alla soluzione del problema della siccità.

L’Avisio è stato presente lo scorso aprile a Interalpin, la più importante fiera dell’innovazione “di montagna” del mondo, a Innsbruck e ha parlato con molte aziende del settore, a partire dal Gruppo HTI di Vipiteno – proprietario tra gli altri dei marchi Leitner, Demaclenko e Prinoth – che è coinvolto direttamente nella questione. L’argomento era all’ordine del giorno: c’è un gruppo di studio in Alto Adige, dove privato e pubblico lavorano insieme, i cui risultati hanno definitivamente stabilito l’importanza di realizzare una serie di invasi in alta quota che ora non serviranno solo per fornire acqua ai cannoni o per la produzione di energia idroelettrica ma che si trasformeranno in una vera e propria risorsa idrica utilizzabile dodici mesi l’anno. Alcuni bacini nascono già oggi per raccogliere l’acqua di fusione dal disgelo mentre altri pompano anche acqua dal fondovalle, solo nei momenti di abbondanza e quando è consentito dalla legge: altri ancora invece verranno progettati in un breve futuro prevedendo che uno o più cannoni sparino neve tecnica pochi metri a monte degli invasi stessi (anche quando non serve per le piste) creando così enormi accumuli che, sciogliendosi in primavera, colmeranno ulteriormente i bacini. Una sorta di grande batteria termica. Durante la bella stagione, quando sarà opportuno, quell’acqua finita nel bacino sotto l’accumulo verrà usata per produrre energia idroelettrica e come riserva idrica per i campi e per dare corpo ai fiumi e ai laghi a valle. E può anche essere facilmente potabilizzata.

“Il Piano Regionale Neve rappresenta lo strumento di pianificazione regionale delle infrastrutture funiviarie e sciistiche e identifica gli elementi per uno sviluppo razionale e sostenibile, garantendo la mobilità e preservando le risorse ambientali”. Questa è la definizione formale di questa arma che alcune Regioni sfruttano per convivere con la neve. Insomma, un istituto che riguarda le aree demaniali, le concessioni, le aree sciabili e oltre una cinquantina di Comuni con realtà e problemi completamente diversi – quante piste andrebbero allargate, quali impianti andrebbero soppressi, quali lavori di manutenzione andrebbero fatti sul pendio… Non tutte le regioni hanno un Piano Neve nè fanno questo genere di programmazione e non esiste una regia nazionale che dia linee guida valide per tutti.

Il prossimo Piano Neve decennale che sta per essere presentato è stato progettato tenendo conto delle necessità mdella mobilità delle persone e ovviamente anche della siccità, senza voler combattere i cambiamenti climatici ma cercando di adattarsi ai medesimi, attraverso una diversa gestione delle infrastrutture. La priorità? Capire qual è il delicato equilibrio tra la produzione di neve, l’irrigazione per l’agricoltura e le finalità della produzione idroelettrica: per questo verrà sostenuta l’idea di mettere in opera un numero maggiore di invasi in quota, forti del fatto che la politica non ne ostacolerà la realizzazione se i dati portati dall’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente e i quelli pluviometrici diranno che i bacini servono.

Enrico Maria Corno

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