Pubblicato nel 2018
È il simbolo della montagna al femminile. Marica Favè, ladina fassana, è l’unica guida alpina donna del Trentino (14 in tutta Italia su oltre 1.100) iscritta all’albo professionale internazionale: un sogno realizzato il suo, un obiettivo raggiunto con impegno sulla spinta di una passione infinita, che la fa vivere quasi in simbiosi con la montagna.
“Un giorno – confida Marica – mi capitò di leggere una frase di Goethe: La montagna è un’insegnante muta per discepoli silenziosi. Mi restò dentro perché riportava la mia mente a una domanda frequente per chi vede, da fuori, l’alpinismo come un’attività pericolosa, faticosa e inutile, la conquista dell’inutile. Perché si fa alpinismo? Le risposte sono diverse, i motivi sono intimi e personali. Io ho iniziato ad andare veramente a scalare in montagna quando ho concluso la mia attività agonistica sugli sci. È stata una scelta naturale, legata all’ambiente in cui vivo, al mio carattere che accetta le sfide, alla mia attitudine di cercare di tirare sempre fuori il meglio di me, e maturata con certezze sempre più forti, fino ad affiancare al mio lavoro di maestra di sci, quello di guida alpina”.
È una professione che la rende felice, un capitolo nuovo in una storia d’amore con la montagna che ha radici profonde. “È stato molto importante mio padre Renzo, guida alpina, maestro di sci, vigile del fuoco, per un quarto di secolo alla guida del Soccorso Alpino Auta Fascia, che ancora sento vicino, nonostante sia venuto a mancare a 58 anni, nel 1993. Anche mia madre Anna mi ha sempre seguito e incoraggiato quando gareggiavo sugli sci”.
Il suo rapporto con la montagna è stato fatto di neve e di gare per tanto tempo. “A tre anni ho iniziato a sciare e a sei a gareggiare. Per 20 anni ho fatto gare di sci, di cui otto per la Squadra Nazionale di sci alpino, dal 1989 al 1997, quando ho concluso il corso per diventare maestra di sci. Nello stesso anno, grazie a una borsa di studio, sono partita per gli Stati Uniti, al Sierra Nevada College a Lake Tahoe in Nevada e per due anni ho studiato all’Incline Village e gareggiato nello Ski Team del College, viaggiando molto in Nord America. Nel 1999, al ritorno in Italia, ho concluso il corso per diventare allenatrice di sci alpino”.
La lunga parentesi sportiva le ha dato soddisfazioni?
“Poteva forse arrivare qualcosa di più, ma è andata così. Ho gareggiato in Coppa del Mondo come super gigantista e discesista. In super G ho conquistato una vittoria in Coppa Europa a Sestola, ed è stato uno dei momenti più belli, oltre a qualche piazzamento sul podio. Al Campionato italiano assoluto in discesa libera nel 1992 sono arrivata seconda dietro a Barbara Merlin e davanti a Isolde Kostner. In quel periodo in squadra c’erano anche Karen Putzer e la grandissima Deborah Compagnoni, tutte brave e belle persone, serie e determinate. Ho legato, anche fuori dalle piste, soprattutto con Isolde, equilibrata, tranquilla, genuina, priva di invidie, modesta: è sempre rimasta se stessa. Tra i colleghi maschi, stimo molto Kristian Ghedina, persona acuta, sensibile, intelligente, grande dal punto di vista umano, come Peter Runggaldier”. Chiuso il capitolo sci agonistico, diventata maestra di sci e allenatrice, si è rimessa in gioco.
Quanti sacrifici ha comportato la scelta di un mestiere ancora quasi esclusivamente maschile?
“È stato un percorso duro, lungo e impegnativo. Mi ritengo una persona competitiva, mi piace mettermi alla prova, impegnarmi in quello che faccio e così sono andata avanti con decisione. Conclusa la carriera di sciatrice agonistica, ho iniziato a frequentare la montagna da alpinista sempre di più e ad arrampicare assiduamente, fino a quando il sogno ha iniziato a prendere corpo, sperando di arrivare a coronarlo. Nel 2006, dopo molti esami, sono diventata aspirante guida, e nello stesso anno ho fatto qualche gara di arrampicata su ghiaccio con qualche podio e un secondo posto nella classifica finale di Coppa Italia, conoscendo l’amica e collega Anna Torretta. Nel 2009 ho raggiunto il traguardo chiudendo il ciclo dei corsi guida e ottenendo il diploma UIAGM”.
Donna guida alpina: come è stato l’inizio?
“Mi venivano assegnate solo passeggiate, escursioni e qualche ferrata. Poi le cose sono cambiate, ora mi succede di accompagnare clienti anche sulle grandi classiche delle Alpi, Bernina, Ortles, Gran Zebrù, Cevedale, Monte Bianco, oltre naturalmente alle mie care Dolomiti, le montagne di casa che preferisco assieme al granito della Val di Mello. Di recente ho fatto esperienza in Patagonia, dove era stato mio papà nel 1976. È una professione che richiede allenamento, tecnica e fisicità, ma credo che le donne possano svolgerla molto bene. Un tempo i club alpinistici non vedevano di buon occhio le donne in parete, oggi la situazione è cambiata. Credo che le donne guida alpina abbiano quasi più pazienza, sensibilità, disponibilità, anche per una questione di carattere, in certe situazioni. Mi sento privilegiata a fare questo fantastico lavoro, che mi permette di divertirmi. Penso alla libertà delle sciate fuori pista nelle giornate di sci alpinismo. Il vero lavoro comincia quando arrivo a casa e devo seguire un po’ tutto, come una qualsiasi casalinga, e mia figlia Anja che ha sette anni”.
È cambiato il rapporto delle donne con la montagna?
“Moltissimo. Un tempo una donna un tempo seguiva il marito, oggi le donne arrampicano anche da sole, o con le amiche. Io preferisco essere prima di cordata, da seconda mi diverto meno, e l’ho fatto poche volte. Non mi piace invece scalare da sola perché si assumono rischi indipendenti e non si ha margine di errore. Penso a scalare in modo responsabile e quando è necessario, fermarsi”. Così Marica è tra i 23 alpinisti che raccontano la loro esperienza di rinuncia nel libro di Massimo Dorigoni “Montagne senza vetta. Il coraggio di sentirsi liberi”. Persona simpatica, estroversa e determinata, l’alpinista ladina accetta sempre nuove sfide. Assieme ai fratelli bolzanini Martin e Florian Riegler ha partecipato, come controfigura, al film “Everest” del regista islandese Baltasar Kormakur, uscito nel 2015, che rievoca la vicenda del maggio 1996 quando otto alpinisti di due spedizioni partite per raggiungere la vetta della cima più alta del mondo persero la vita. “Fui scelta per interpretare la figura dell’alpinista giapponese, Yasuko Namba, che nella vita era una donna manager, perché il regista ritenne che le assomigliassi sia per l’aspetto fisico sia per capacità e tenacia in montagna. È stata una bella esperienza che mi ha arricchito, anche per l’amicizia nata sul set con i fratelli Riegler”.
Quindi cosa significa andare in montagna per lei?
“Tante cose… incanalare le energie, soddisfare un senso di competizione che fa parte del mio carattere. Non si tratta però di una competizione con gli altri, ma con me stessa. Crescere mettendomi alla prova, in situazioni di fatica o difficili gestendo paura e istinto. L’alpinismo non è solo un’attività sportiva. È uno stile di vita che ti porta a fare fatiche e sacrifici e ti premia con ambienti stupendi, benessere fisico e mentale e che ti insegna ad apprezzare anche le più piccole cose, dell’ambiente ma anche delle persone. L’essere donna poi è un qualcosa in più. Per la sensibilità; magari proprio nel capire i propri limiti o apprezzare lo scenario che ci circonda. Le motivazioni, il modo di affrontare la montagna è lo stesso, sfruttando qualità che noi abbiamo senza cercare modelli maschili, ma coltivando le qualità femminili”.
Giuseppe Sangiorgi
