di Guido Bonsaver
In uno dei primi articoli per “Mondo foresto”, più di tre anni fa, scrissi che sarebbe bello se in ogni paese delle valli si promuovesse una specie di “Amarcord” (che per i Fiemmazzi sarebbe un “Mi me recorde”, e per i Fassani qualcosa come “Gé me recorde”). Sarebbe un’iniziativa con cui ricordare insieme, non solo i luoghi, ma anche i personaggi che hanno dato colore alla vita paesana, per il loro genio o personalità, o perché erano esperti in mestieri e tradizioni oggi quasi scomparsi.
Giorni fa ho scoperto che qualcosa del genere è stato fatto in un paesino della costa palermitana, Aspra, grande più o meno come Tesero, solo che invece di essere in costa di montagna è comodamente sdraiato sul magnifico lato orientale del golfo di Palermo. Lì, un’associazione pro-loco formata da ventuno donne asprensi si è data il compito di ricostruire la vita di una dozzina di personaggi locali, e lo ha fatto con immagini e parole che uno può godersi stando davanti alla porta della casa dove la persona aveva abitato.
Come? Grazie a un connubio di arte, storia sociale e tecnologia digitale. In pratica, si è ricostruita la storia di ognuno di questi personaggi e la si è raccontata in un testo che si può leggere o ascoltare grazie al codice QR che compare accanto all’immagine in maiolica, opera di un’artista locale, fissata accanto alla porta di casa. Così, passeggiando per le vie di Aspra, residenti e turisti dotati di smartphone possono soffermarsi ad assaporare un racconto biografico che è parte integrante della storia del paese. Tra i primi dieci selezionati figurano personaggi di umile origine: ad esempio una maestra ricamatrice celebre per le storie che raccontava alle sue apprendiste, o un trio di fratelli musicanti che emigrarono in America, o una ragazzina mandata a lavorare “a padrone” in un palazzo di aristocratici palermitani e ritornata al paese trasformandosi in un esempio di grazia ed eleganza nonostante i nove figli e il semplice mestiere di cuoca. Infine – ritratto nella foto – troviamo Girolamo Vitale, detto “Mummineddu”, che qualcuno potrebbe superficialmente avvicinare alla figura proverbiale dello “scemo del villaggio”. Mummineddu riscattò invece la sua bizzarria fisica e comportamentale trovando lavoro e amore in un circo passato di là. Con questo girò tutta l’Italia per poi tornare al paese, e lì si fece apprezzare per il suo cantare a squarciagola tra le barche sul bagnasciuga, di giorno, e la sera tra un’osteria e l’altra.
Se è un privilegio poter godere di questi racconti nei luoghi che gli hanno fatto da sfondo, grazie alla tecnologia uno può pure permettersi un viaggio virtuale standosene seduto al proprio computer in qualsiasi angolo del pianeta, come ho fatto poco fa.
Quanto al mio personale “amarcord” vissuto tra Moena e Predazzo, non ho la pretesa di proporre figure che potrebbero risultare memorabili all’intera comunità. Sono ricordi personali, straordinari solo nel teatro della propria memoria. Un paio ne ho menzionati in articoli passati. Un terzo, ora che torno a pensarci, potrebbe riguardare una coppia di preti scomunicati comparsi nella Predazzo degli anni Sessanta. Quale fosse la ragione del loro allontanamento dalla santa Madre Chiesa, non lo so. Non era cosa di molta importanza per noi bambini. Ben più importante era il loro fare arcigno quelle poche volte che li si vedeva comparire a messa, intonacati, sempre in prima fila, sulla destra, proprio davanti al pulpito. Una volta uno dei due aveva cercato di salire gli scalini verso l’altare e chissà quale scenata ne sarebbe nata se non fosse che il sagrestano che li teneva d’occhio si era mosso in tempo per bloccarlo. Credo fossero fratelli o forse così erano nella mia immaginazione visto che vivevano insieme in un casone circondato da orti e alberi da frutto. Chissà, forse la loro colpa era non aver accettato le riforme del Concilio Vaticano Secondo. Forse volevano ancora la messa in latino. O forse con l’età avevano “dato di matto”, come si diceva a quei tempi. O forse avevano dato scandalo per un loro rapporto amoroso, perché no.
Fatto sta che per noi bambini la cosa più temibile era la brutalità con cui difendevano i frutti del loro orto. Rubare una carota o due, da mangiarsi dopo averla risciacquata alla fontana, era cosa facile, un toccata e fuga a basso rischio. Ben più paurosa era la prospettiva di farsi beccare mentre spazzolavamo qualche ramo più alto del loro prugneto. La vista di uno dei due che ci correva contro urlando e sbracciandosi, la tonaca svolazzante come una bandiera pirata, era un incubo costante. Il ruolo del palo, in quelle occasioni, era vitale.
Naturalmente va detto per inciso che per noi bambini, abituati a cibarci di more, mirtilli e fragole trovate sui pendii boscosi fuori paese, l’idea di profanare una proprietà privata e quindi di commettere un puro e semplice furto, non ci sfiorava nemmeno. Del resto, ricordiamoci, l’innocenza tanto proclamata dagli agiografi della fanciullezza, va controbilanciata dalla realtà di fatto che il bambino scarseggia in senso morale e quindi è capacissimo di compiere nefandezze vergognose con lo sguardo angelico di un ritratto del Bambin Gesù.
Ho pure il sospetto che lo status di reietti della comunità cui i due erano soggetti ci conferisse una specie di licenza a delinquere nei loro confronti. Ma mi sto prendendo in giro. Le carote e le prugne le rubavano a tutti, senza distinzioni.
I due avevano pure qualche capra, che pascolavano tra le vie del paese. Forse era un gesto di sfida. O forse erano davvero un poco matti. A ripensarci, una maiolica accanto al portone di casa, con tanto di codice QR, se la meriterebbero. Chissà se nel paesino di Aspra ce l’avevano una coppia di preti scomunicati. Mia moglie vien da lì. Stasera glielo chiedo.
Foto: Girolamo Vitale, detto “Mummineddu”, personaggio storico di Aspra (artwork di Adriana Pecoraro)