C’è una sola certezza. “La guerra che verrà non è la prima. / Prima ci sono state altre guerre. / Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. / Fra i vinti la povera gente faceva la fame. / Fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente.” (Bertolt Brecht)
Sono giorni dolorosi e confusi. Le immagini di fuga, morte, dolore si accumulano, le voci della disperazione riempiono gli spazi e i pensieri. Temo di abituarmici, che tutto questo finisca per non toccarmi più. Che il “magazzino degli orrori” attenui l’empatia come la vista si abitua nella penombra. Giorno dopo giorno, però, mi accorgo che nella confusione di notizie, opinioni, numeri e voci una serie di punti fermi inizia ad imporsi con forza nella mia testa. Col passare dei giorni i contenuti si fissano e i contorni si fanno sempre più definiti. Ecco i punti fermi a cui mi aggrappo nel terribile e inarrestabile vortice della guerra:
C’è il dolore. Il dolore di chi il giorno prima conduceva una vita normale – preparava lo zaino per la scuola, aspettava che la compagna tornasse dal lavoro per cenare insieme, dava appuntamento a un amico per andare al cinema, aspettava il sabato per andare a trovare i nonni in campagna – e il giorno dopo si ritrova inspiegabilmente sotto le bombe. Le sirene suonano, le case prendono fuoco e poi crollano, la gente si ammassa nei bunker, le persone muoiono e vengono lasciate in strada, chi può attraversa un confine. Il dolore di chi vede la propria vita cambiare da un giorno all’altro e non può farci niente. Il dolore di chi fugge lasciando tutto ciò che conosceva. Il dolore di chi resta e perde ciò che lo ha spinto a rimanere. Ma anche: il dolore del giovane soldato russo costretto a partire con un fucile in mano verso chissà dove a fare chissà cosa, e magari voleva iscriversi all’università. Il dolore della madre che da giorni non sa nulla di sua figlia andata a manifestare contro la guerra in piazza a Mosca. Il dolore di chi, da lontano, vede la propria gente soffrire e non può fare nulla. Il dolore di chi vive la guerra è un dolore calmo e ammutolito. È un dolore che non trova le parole e spesso neanche le lacrime, perché inspiegabile è ciò che lo causa. Il dolore di chi vive la guerra è uguale in tutte le parti del mondo. Diverso è solo il nostro modo di accogliere chi vi fugge.
C’è il senso di impotenza. Non da oggi.
C’era qualche mese fa per ciò che accadeva in Afghanistan; c’è da anni per lo scorrere incessante della guerra in Siria; c’era nel 2018 quando a Belgrado ascoltavo le storie di pakistani, afghani, curdi, siriani e iraniani, li vedevo partire per il confine con la Croazia e poi li vedevo tornare dopo essere stati ricacciati brutalmente indietro; c’era un paio d’anni dopo quando lo stesso scenario, immutato, lo vedevo in Bosnia. C’è per conflitti e ingiustizie vicine e lontane. C’è la costante domanda: cosa posso fare io? Non ho ancora trovato una grande risposta, solo una piccola: tendere le mani.
Ci sono le ragioni della pace. Neanche queste ci sono da oggi. Sono le ragioni di chi si batte da anni per l’abolizione delle assurde armi nucleari. Un piccolo passo è stato di recente compiuto: la ratifica da parte di un numero sufficiente di Paesi del Trattato per la proibizione delle armi nucleari ha portato alla sua adozione da parte delle Nazioni Unite nel 2021. L’Italia non compare tra i Paesi firmatari. Le ragioni della pace sono portate avanti da associazioni, come la Rete Italiana Pace e Disarmo, che da anni chiedono che si smetta di investire in armamenti, carburante delle guerre che vediamo scoppiare, e di quelle troppo lontane per interessarci. Le ragioni della pace sono spesso inascoltate. La Camera dei Deputati ha di recente approvato un ordine del giorno che porterà all’aumento delle spese militari al 2% del Pil. Le ragioni della pace sono spesso denigrate e accusate di essere puerili, ingenue, inutili. Chi difende le ragioni della pace è chiamato codardo perché rifiuta la risposta più logica alla violenza: altra violenza. Ma le ragioni della pace sono le uniche che ci porteranno, un domani, fuori dall’incubo delle guerre. Se si vuole la pace, occorre preparare la pace.
C’è il privilegio. C’è il mio stare qui, al sicuro. C’era la mia possibilità di attraversare legalmente il confine senza rischiare di essere ricacciata indietro, quando dalla Serbia e dalla Bosnia sono tornata a casa.
C’è il mio sentirmi vicina ma essere, di fatto, lontana. C’è il sospiro di sollievo involontario e nascosto quando pensiamo che “qui non può accadere”. C’è la mia ignoranza della paura. Il non dovermi chiedere cosa metterei nello zaino, se fosse tutto ciò che mi sarebbe consentito portare. C’è il noi e il loro. Tra i due, una distanza incolmabile. C’è un tentativo di tendere la mano e colmare l’incolmabile. Il riconoscimento che essere da un lato o dall’altro è dovuto al caso, non a meriti o demeriti. C’è la solidarietà che si fonda sul riconoscimento dell’ingiustizia che ci separa, e lo sforzo di ripararla insieme.
C’è la rabbia. Verso chi vuole metterci gli uni contro gli altri. Verso chi ci arma e ci spedisce al confine, convincendoci che lo stiamo facendo per noi stessi e per le nostre famiglie e per la famiglia più grande: la Nazione. Verso chi della guerra fa un dipinto romantico. Verso chi ha sete di eroi e disprezzo per i disertori. Verso chi traccia linee di confine e separa i popoli come fossero tranci di carne. Verso i produttori e i commercianti di armi, che trasformano il sangue altrui in ricchezza. Verso gli Stati che si armano a vicenda e che fingono stupore e dolore quando le armi che si sono scambiati iniziano ad uccidere. Verso i giochi delle Grandi Potenze sulla pelle dei piccoli popoli.
Elisabetta Deidda