Abbiamo deciso di riproporre alcuni articoli del periodico l’Avisio. Si tratta di “pezzi” che ci raccontano come eravamo. Gli articoli sono antecedenti rispetto ai giornali digitali scaricabili gratuitamente dall’archivio contenuto ne L’AvisioBlog. Oggi vi proponiamo tre interviste con sarti specializzati nel “guant”, il costume tipico della Val di Fassa, pubblicate nel 2002. Buona lettura.
In passato era un vero “must”. Tutti lo possedevano. Anche nelle famiglie più povere si facevano sacrifici per dare ai figli <l’abito della domenica> impreziosito dai suoi accessori. Oggi, chi usa il costume fassano rinnova consapevolmente una tradizione culturale radicata. E sceglie di indossare un simbolo, o meglio, un insieme di simboli, che forse le giovani generazioni non conoscono a fondo.
Nel numero dei pezzi di stoffa usati per realizzare il costume, nelle rifiniture e nei gioielli ricorrono sempre gli stessi numeri. Il tre, numero perfetto legato alla religione. Il sette, connesso alla magia. Il dodici, come gli apostoli.
Così gli spilloni per l’acconciatura potevano essere tre o sei, fino ad arrivare in casi eccezionali, a dodici. Tre i teli che servono per plissettare bene la gonna e tre, ancora, le parti che compongono il grembiule. I ganci del bustino sono sette o dodici. Sette anche i fili d’argento che si usano come una lunga collana.
Il vestito femminile, in particolare, ripropone numeri e significati in ogni sua parte. E soprattutto aiutava la donna fassana a lanciare messaggi d’amore, quando era in età da marito. “La testa – spiega Claudia Dorigotti, esperta di costumi e tradizioni fassane – è la parte del corpo femminile più agghindata. Le donne raccolgono i capelli in trecce a forma di cuore sulle quali si puntano degli spilloni d’argento. Il numero varia a seconda della ricchezza della donna e dell’occasione”.
Oltre agli spilloni le donne portavano in testa un pettine d’osso. In Fassa, di antichi, ce ne sono solo una trentina. Si tratta di pettini preziosi, perché venivano realizzati con una tecnica di lavorazione oggi in disuso. “Gli uomini che andavano oltre i confini della Valle a fare i decoratori o i musicisti, a volte, venivano pagati con dei gioielli. Oppure tornando a casa ne acquistavano per moglie e figlie”.
Il costume femminile, in passato, comprendeva un copricapo?
“Sì. Poteva essere una coroncina in pizzo a tombolo oppure un cappello di lana a punta. Li indossavano le donne anziane e le madri che avevano prestato i loro gioielli alle figlie. Oggi al cappello si preferisce l’acconciatura con gli spilloni, perché di maggiore effetto”.
Anche il decolté è un punto che deve attirare attenzione. La donna fassana, al contrario di quella altoatesina, nasconde il seno sotto un cuore di stoffa ricamata, detta <peza da sen>, che è una delle parti più belle del costume. Sopra il cuore di stoffa si mette, insieme a sette giri di un filo d’argento, una collana di corallo, che si dice protegga la gola, ma che spesso in passato era fatta di fossili raccolti sulle montagne. Alla fine del bustino va un nastro di seta, allacciato a destra se la donna è sposata e a sinistra se è nubile.
Anche il costume maschile nasconde dei simboli?
“Sì, Se l’uomo è ricco ha cintura e pantaloni molto decorati. Inoltre, l’innamorato dovrebbe puntare gli spilloni sul collo della camicia, in numero dispari a partire da tre, presi alla donna del cuore, come pegno d’ amore. Le donne anziane raccontano che se un uomo prendeva gli spilloni ad una donna diventava l’uomo della sua vita, anche se i due non si sposavano. Gli spilloni rappresentavano, quindi, un segno del destino. Questi gioielli, però, una volta messi sul colletto dell’uomo non venivano restituiti, nemmeno se il matrimonio andava a monte”.
I vestiti realizzati oggi rispettano la tradizione di un tempo?
“In Val di Fassa c’ è molta attenzione nella riproduzione dei costumi, più che in tante altre zone delle Dolomiti”.
C’è chi si sposa con il costume tradizionale?
“Non sono numerosi, ma le persone che fanno questa scelta dimostrano di credere fino in fondo nella loro radice ladina”.
Il costume fassano non si trova nei negozi. Alcune sartorie altoatesine o austriache li realizzano, ma il risultato non è perfetto. Sono rimaste solo tre o quattro persone, in tutta Fassa, che conoscono tutti i segreti per cucire un abito tradizionale. E non ci sono nemmeno giovani che desiderino imparare quest’arte.
Mariuccia Crepaz, di Pera di Fassa è una sarta esperta. “Da quando sono in pensione ho intensificato la mia attività – racconta Mariuccia – e ho realizzato abiti anche per i gruppi folcloristici di Canazei e Soraga”.
Quanto impiega per cucire un costume femminile?
“Quando c’è tutto il materiale pronto una settimana. Ma la fase preparatoria è piuttosto lunga, dato che bisogna comperare le stoffe, plissettare la gonna e cercare tutti gli accessori da abbinare al vestito”.
Dove acquista le stoffe?
“Alla cooperativa di Canazei. Lì trovo la lana per la gonna, il velluto a fiori per il bustino, il misto lino per la camicia. Ma si comperano anche in negozi specializzati di Bolzano e Merano”.
Plissetta la gonna a mano?
“No. Oggi non si usa più. Porto la stoffa pronta per essere piegata, insieme alla fodera, in una tintoria di Milano”.
Quanto spende chi si fa confezionare un abito femminile?
“Dai milleduecentocinquanta ai millecinquecento euro (circa 3.000.000 di lire), ma è un vestito che si tramanda di generazione in generazione”.
Ernesto Brunel, di Soraga, ha realizzato una ventina di abiti maschili e tantissimi abiti femminili per i gruppi folcloristici e per i fassani. “Anni fa – dice – ho iniziato a studiare i costumi antichi che avevo in casa e che mi sono fatto prestare, per capire bene come realizzarli. Ne ho cuciti due da donna facendo la plissettatura a mano”.
Che procedimento ha seguito?
“Quello tradizionale. Ho segnato sulla stoffa a distanza regolare le pieghe, le ho imbastite e ho accorpato il più possibile la stoffa. L’ho bagnata con acqua e zucchero, quindi messa in piega tra due tavole pesanti per due o tre giorni, finché non si è asciugata la stoffa”.
Un metodo laborioso?
“Sì. Inoltre questo tipo di plissettatura è impagabile. Il costo del vestito lievita. Ora, d’abitudine porto la stoffa a plissettare in una lavanderia di Bolzano”.
Lei rinnova vestiti antichi?
“Sì, mi capita spesso. Di solito cambio il bustino, che una volta era molto corto. La figura femminile, nel corso del tempo si è modificata, e così i vestiti delle nonne non si adattano più alle nipoti”.
Quanto costa un vestito tradizionale?
“Per la manodopera del sarto si spendono circa settecento euro (1.300.000 lire circa). A questa cifra bisogna aggiungere il prezzo delle stoffe”.
Qual è il prezzo di una buona stoffa per la gonna?
“Con tredici euro al metro a Trento, Belluno o Vicenza si trovano tessuti di qualità. A Bolzano, invece, si spende il doppio”.
Gli abiti maschili richiedono molto lavoro?
“Sì. La parte più impegnativa sono i pantaloni di pelle da decorare, che ora non cucio più. Mando i miei clienti in una sartoria di Innsbruck. Il risultato non è dei migliori, ma per me quel lavoro è diventato troppo faticoso”.
Ci sono ragazzi giovani che vogliono imparare a cucire i costumi?
“No. Conosco alcune ragazze che frequentano la scuola di sartoria a Rovereto. Loro potrebbero imparare. Per realizzare questi abiti, però, bisogna conoscere bene la tradizione e avere tanta esperienza di sartoria. Insomma, cucire un costume è un vero rito”.
Elisa Salvi