Nel ristretto (ma mica poi tanto) mondo delle pelli, Giorgio Daidola è molto conosciuto, soprattutto per le posizioni estreme e coerenti che ha preso durante la sua attività di scialpinista e di comunicatore: a turno, se la sono presa tutti con lui – i difensori a tutti i costi della montagna e chi al contrario pensa che la montagna possa essere sfruttata, pur con tutti i limiti.
«Vivo in Val dei Mocheni, a mezz’ora da Trento. Qui si vive in una dimensione diversa. Qui non c’è niente e non potrei trovarmi meglio. Questa zona è rimasta quasi selvaggia. E poi la Val di Fiemme è a breve distanza da casa mia. E soprattutto Panarotta. Mi piacciono le stazioni piccole. Fanno per me».
Lo sci, del resto, è stata una costante nella vita di Giorgio Daidola…
«Ho imparato a sciare prima che a camminare, e non è un modo di dire. Poi, dopo essermi laureato, facendo il servizio militare in Valle d’Aosta frequentai la Scuola Atleti a Courmayeur e il Plotone Esploratori a LaThuile. Era il 1971. Capitava spesso di allenarsi con tutti gli atleti azzurri di quel momento e così riuscii a migliorare tanto le mie qualità sulla neve. Alla fine dei 15 mesi di naia ho fatto tutta la trafila per diventare maestro di sci. Così ho insegnato un paio di anni a Sauze d’Oulx, mentre ero borsista all’università. Il tempo libero non mi mancava…»
Com’è successo che un torinese si trasferisse a Trento?
«Per caso, come sempre. Ero alla scuola di amministrazione industriale di Torino. Riuscii ad avere un incarico di due anni in Calabria dove potevo sciare sul Pollino e sull’Etna. Quando fui temporaneamente chiamato a Trento, pensavo il mio fosse solo un incarico transitorio ma poi ho conosciuto queste montagne, oltre alla mia futura moglie».
Ora Giorgio Daidola è in pensione ma per anni ha tenuto un corso di analisi economico finanziaria delle imprese turistiche: «Pochi giorni fa abbiamo discusso una tesi sui bilanci del Ciampac e del Buffaure», racconta divertito.
Perché lo scialpinismo è diventato la tua ragione di vita… sportiva?
«In famiglia avevamo la tradizione di fare una gita di fine stagione. Mio padre mi portava a sciare. A quei tempi le attrezzature erano ben diverse da quelle di oggi con sci lunghissimi e scarponi di cuoio. Poi nel 1982 scoprii il telemark e da allora ho sempre sciato così, alla maniera degli antichi. Avevo la sensazione di tornare all’origine. C’erano già le pelli di foca sintetiche. A quei tempi provavo davvero il piacere di sciare con un paio di Rossignol bellissimi da 207 cm con attacco Silvretta che poi ho venduto in un momento di follia. Il piacere di sciare è proporzionale alla lunghezza dello sci: ora lo hanno realizzato anche i giovani freerider che hanno sci molto larghi ma anche decisamente lunghi».
E perché la Marmolada in particolare ha trovato spazio nel tuo cuore? In cosa è diversa dalle altre cime?
«Io sono piemontese. In Piemonte, cime oltre i 3300 metri con neve perenne ce ne sono tante ma la Marmolada è diversa. In Trentino o fai “sci di canale” o fai discese corte, tranne sulla Marmolada che è ha linee e dimensioni perfette. Ti dà spazio. Ti dà l’estetica. Non so per quanto tempo ancora ma ti dà il ghiaccio. Ti dà l’idea dell’immensità. Non è una montagna “opprimente” come capita spesso quando scii tra le pareti di roccia. Qui puoi fare la tua linea di discesa – io ne ho trovate almeno sette, una più bella dell’altra. Anche se vai in piena stagione quando è frequentata da migliaia di scialpinisti, riesci a fare la tua discesa senza problemi e senza doverti guardare alle spalle. E poi è la sintesi perfetta tra scialpinismo e discesismo.
In Marmolada c’è la storia e la tradizione della discesa, con gare celebri come il Gigantissimo che misurava 1300 metri di dislivello su 6 km di lunghezza: era una gara che veniva vinta da Zeno Colò e da Toni Sailer». La prima edizione alla fine di aprile del 1974 fu vinta da Guido Demetz su una schiera di 700 concorrenti, dopo la squalifica dei primi cinque arrivati tra cui Franco Bieler, Piero Gros e Giuliano Besson. «E poi c’era la Direttissima, con la pista non battuta. Alla fine dei conti, mi piace sempre citare Ettore Castiglioni – la sua è ancora la migliore guida dello scialpinismo delle Dolomiti – che, con una frase tanto coincisa quanto illuminante, diceva semplicemente che “la Marmolada è la montagna perfetta”».
In Marmolada, Giorgio Daidola torna sempre volentieri, si diverte (oltre al tradizionale versante nord, puoi sperimentare traversando anche il versante sud) e trova sempre una ragione per provare nuovamente le emozioni che provava da bambino: «Temo che prima o poi le cose possano cambiare. Temo che me la rovinino. Secondo me la Marmolada dovrebbe rimanere sempre così, rifacendo il vecchio impianto ormai dismesso e senza aggiungere altro. L’impianto era sempre in perdita? Andrebbe valorizzato con un treno a cremagliera che da Penia in Località Pian Trevisan possa portare la gente fino al lago anche in pieno inverno quando la strada è chiusa. Verrebbero risparmiati anche i soldi spesi nei lavori per mantenere la strada temporaneamente aperta. Bisogna puntare a un turismo di qualità emozionale. Lo sci deve emozionare».
Enrico Maria Corno